Sembrava costituire un limite invalicabile alla conoscenza e alle pratiche che dalla conoscenza derivano, ma oggi la complessità appare come un prezioso antidoto nei confronti di alcuni sconcertanti eccessi di semplificazione nella elaborazione di futuribili scenari sociali e ambientali.
di Gian Piero Jacobelli
«Rosso di sera, buon tempo si spera», si diceva una volta quando la osservazione del cielo e i proverbi in cui sedimentava la sapienza contadina, comprensibilmente interessata ai capricci del clima, costituivano il principale strumento di previsione anche per gli abitanti delle città.
Oggi non è più così: non c’è più bisogno di guardare il cielo perché ogni sera le innumerevoli reti televisive ammanniscono suggestive immagini satellitari delle nuvole che ricoprono le diverse regioni terrestri e grafici in cui si vedono avanzare o arretrare i fronti delle turbolenze atmosferiche, forieri del bello o del cattivo tempo.
Insomma, ormai sembra tutto scontato, quanto meno ciò che accade sopra di noi, nell’alta atmosfera, per cui viene anche meno la speranza di farla franca grazie a un infuocato tramonto.
Tuttavia, poiché quello metereologico si configura come uno dei sistemi più difficili da simulare e prevedere per la molteplicità dei fattori coinvolti – tutti ricorderanno il cosiddetto “effetto farfalla” di Ray Bradbury ed Edward Lorenz – anche oggi, alzandosi la mattina, succede che, dopo essersi rassegnati alle previsioni temporalesche della sera prima – «cielo coperto e pioggia intermittente sul versante tirrenico», e via dicendo – il cielo ti colpisca con la sua luminosa trasparenza, come un invito a cominciare bene la giornata e a non lasciarsi irretire dai lacci e lacciuoli degli algoritmi previsionali, per chiamare in causa una delle nozioni più diffuse e discusse del nostro tempo.
A questo proposito, in un recente e documentato saggio, Algoritmi. Il sofware culturale che regge le nostre vite (Sossella 2017), Mario Pireddu conclude, con comprensibile prudenza, che «resta da capire se saremo all’altezza dei sistemi complessi che abbiamo creato». Interrogativo cruciale, in cui si adombra sia la segmentazione corporativa della società della ricerca, della formazione, della produzione, del controllo, sia la problematicità dei ricorrenti tentativi di affrontare e di interpretare statisticamente i mutamenti in corso nei grandi sistemi antropologici ed ecologici.
Queste perplessità scaturiscono da un articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla nostra Home Page e relativo alle conseguenze del riscaldamento globale sulle prospettive di vita dei neonati. Premesso che si tratta di una ricerca autorevole e importante, pubblicata nei “Proceedings of the National Academy of Sciences” e realizzata da ricercatori delle università statunitensi di Stanford e di Berkeley con il supporto del Tesoro degli Stati Uniti, le sue conclusioni appaiono tanto perentorie quanto sconcertanti: «Un crescente numero di ricerche conclude che l’innalzamento delle temperature globali comporterà un incremento del rischio di stress termici e colpi di calore, provocando la riduzione della produttività, accentuando il divario fra ricchi e poveri e scatenando azioni violente».
Non si tratta, come si può capire, di una ricerca banale, sia perché associa fenomeni di carattere fisico, in particolare meteorologico, con fenomeni di carattere psicologico e socioeconomico, sia perché ne trae conclusioni concernenti gli assetti della convivenza in un arco di tempo generazionalmente contenuto: «Persino brevi periodi contrassegnati da ondate di caldo estremo potrebbero avere ripercussioni a lungo termine sui bambini e sul loro futuro finanziario».
Con accenti tanto più incalzanti quanto più preoccupanti, la ricerca conclude che «per ogni giorno in cui le temperature hanno superato i 32°C nel periodo compreso tra il concepimento e i primi anni di vita, il giovane lavoratore accuserebbe a 30 anni un calo dello 0.1 per cento nella redditività del suo lavoro».
Francamente non si può non restare perplessi di fronte alla ipotesi di una così diretta e cogente correlazione tra i processi di sviluppo neonatale, che implicano una molteplicità di meccanismi omeostatici, e le variazioni climatiche, che si sono sempre registrate e che, in ogni caso, non presentano lo stesso andamento in tutte le regioni del mondo.
Perché dunque i 32°C dovrebbero rappresentare una soglia che comporterebbe una riduzione del reddito individuale, da moltiplicarsi «per il numero complessivo di abitanti che sarebbero esposti a questi eventi metereologici»? Quasi che, nell’ambito di variazioni climatiche comunque “sopportabili” perché non eccessive, ma soltanto più prolungate, non fosse possibile ipotizzare l’emergere progressivo di nuovi equilibri di carattere sia biologico, sia comportamentale, idonei a mantenere condizioni di vita accettabili e comunque non lesive delle capacità di autorealizzazione.
Ha senso, dunque, cogliere nelle situazioni analizzate alcuni marginali scompensi per prolungarli isolatamente nel tempo senza considerare la loro correlazione con gli innumerevoli fattori, naturali e culturali, che condizionano la vita, non soltanto quella umana?
A nostro avviso – ed è questo l’argomento che ci interessa accennare in questa sede – le preoccupazioni spesso irrazionali per la complessità crescente della civiltà contemporanea dovrebbero invertirsi di segno o quanto meno alternarsi con una maggiore fiducia, dal momento che proprio la complessità si prospetterebbe non come una insidia, ma se mai come una salvaguardia di quegli equilibri che consideriamo vitali.
Né, a nostro avviso, sarebbe lecito ridurre tale complessità a pochi fattori di carattere più commerciale che culturale come, nella ricerca in questione, la considerazione che, potendo le popolazioni occidentali e in genere quelle con redditi superiori difendersi dalle oscillazioni della temperatura mediante gli impianti di climatizzazione, la variazione climatica comporterebbe anche un aumento del divario tra paesi poveri e paesi sviluppati.
Siamo tra quanti non amano l’aria condizionata e preferiscono affrontare il freddo e il caldo limitandosi a coprirsi di più o di meno secondo le stagioni. Forse questo atteggiamento di difesa passiva avrà nuociuto alla nostra produttività, ma certo non ha nuociuto a quella dei paesi che una volta si definivano sottosviluppati solo perché cominciavano a registrare tassi di sviluppo assai più rilevanti di quelli dei paesi occidentali.
Per concludere, non resta che auspicare una maggiore prudenza nel trarre conclusioni affrettate da studi demografici e statistici basati sulla enucleazione di pochi fattori rilevanti e sulla loro proiezione “a prescindere”: a prescindere dai contesti di riferimento, dalle diverse abitudini di vita, dalla capacità di adattarsi a situazioni assai differenti.
Senza per altro trascurare la indiscutibile rilevanza di un attento controllo dei cambiamenti climatici e delle loro cause prossime o lontane. Ma anche senza dimenticare che, come suggeriva Antonio Gramsci, quando si dice «Piove, governo ladro!», non ci si riferisce tanto alla pioggia, quanto alla politica.