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    Videogiocando

    Per un uso educativo delle tecnologie comunicative

    Fin dalla loro comparsa, i videogiochi hanno condiviso la sorte che il dibattito pubblico aveva a suo tempo assegnato alla TV, divenendo immediatamente oggetto di giudizi preoccupati e spesso allarmistici circa i loro possibili effetti negativi sulle giovani generazioni. L’apprensione circa il loro potenziale di violenza e la presunta capacità «ipnotica» ha il più delle volte finito per ignorare alcuni fatti importanti. In primo luogo, la presenza della consolle per videogiochi nelle stanze dei ragazzi superava già qualche anno fa quella del computer. Un dato del 2001, rilevato sul territorio di Roma e Provincia, evidenziava una penetrazione domestica pari al 73 per cento per la consolle e al 68,5 per cento nel caso del PC, mentre nel 2003 un’altra indagine, ugualmente condotta su Roma e Provincia, certificava l’esistenza di consolle e PC nella stanza dei ragazzi nel 55 per cento dei casi.

    Sul fronte della percezione di genitori e insegnanti, questa prima constatazione segnala una generale incapacità di riconoscere ai videogiochi il ruolo che a essi storicamente spetta, e cioè quello di primo strumento di avvicinamento all’alfabetizzazione informatica, funzionale all’acquisizione di competenze tecniche ed enciclopediche secondo un modello propriamente esperienziale e immersivo. Nei suoi linguaggi distintivi, il videogioco sintetizza così la logica di superamento dell’astrazione che aveva caratterizzato la forma scritta, propria dei saperi tradizionali e alfabetici.

    Il valore aggiunto di quel «microsistema mediale» che è il videogioco risiede certamente nella capacità di cogliere il mutamento dei processi di socializzazione, di rispondere all’avvenuto processo di disintermediazione dalle istituzioni tradizionali e il contemporaneo ri-emergere della dimensione paritaria e orizzontale dei processi di costruzione dell’identità. Grazie alla loro modalità interattiva di gestione dei processi, i videogiochi simulano e riproducono i rapporti interpersonali, stimolando la creatività e l’immediata capacità di reazione e interazione. In questo senso, l’attività del videogiocare si contrappone strutturalmente a quella del «vedere la TV», per la sua promessa mantenuta di interattività e di gestione soggettiva dei percorsi e delle situazioni. A questa dimensione «personalizzante» si accompagna la capacità di aggregazione, che trova nel gruppo dei pari il primo e autosufficiente universo di riferimento dei comportamenti.

    Alla luce di questo scenario, è impensabile perpetuare e convalidare letture del fenomeno che si pongano in una logica prescrittiva, di negazione forzata della presenza del medium quale momento di esperienza significativa per i giovani. Proprio per questo motivo, la chiave più plausibile per avvicinarsi al problema si situa , a nostro giudizio , nell’accettazione del videogioco entro un’economia del tempo libero che tende ad arricchirsi e sostanziarsi nello svolgimento di altre attività, mediali ed extramediali: il gioco «dal vivo» con altri bambini, la lettura, i compiti, lo sport e tutte le altre possibilità outdoor.

    Occorre inoltre riconoscere al videogioco la sua potenzialità educativa, senza tuttavia negare i pericoli legati a un uso scorretto della tecnologia. La scelta è, allora, quella della Media Education. Nel pieno riconoscimento di un equilibrio della formazione ormai frantumato, scuola e famiglia devono impegnarsi a costituire un’alleanza che sia in grado di favorire un riadeguamento della formazione. Tra i suoi tanti significati, la Media Education evoca l’uso consapevole dei media e la riflessione critica sui loro contenuti. Secondo questa filosofia, i genitori e gli insegnanti dovrebbero essere i primi beneficiari di una formazione ai media, per poi essere in grado di trasmettere questa consapevolezza ai ragazzi. E se fino a ieri potevamo pensare che il medium (e il curriculum) dominante e più pervasivo fosse la TV, oggi dobbiamo prendere atto che a essa si sono aggiunti gli schermi del PC, della consolle per videogiochi e, non ultimo in ordine di importanza, quello del telefonino. Quando pensiamo ai videogame, inoltre, ci troviamo di fronte a un universo culturale e di offerta tutt’altro che omogeneo: accanto a quelli riconoscibili come «violenti», possono esserci videogiochi educativi, che stimolano la capacità di apprendimento e di riflessione critica. Dunque, non è escluso che attraverso questa forma espressiva possa manifestarsi anche una dimensione valoriale: quella di un ambiente formativo forse meno gerarchico e più negoziato, costruito attraverso le interazioni con il gruppo dei pari.

    Un altro aspetto fondamentale da considerare ai fini della valutazione degli effetti di una tecnologia, valido ieri per la TV, oggi per i nuovi media, riguarda lo stile d’uso del mezzo. A tal proposito, pur riconoscendo l’indubbio valore formativo e socializzante dei videogiochi, occorre attivare una logica di prevenzione (e non di censura) che si esprima nel controllo delle ore trascorse davanti al video, negli accorgimenti per una corretta postura e, soprattutto, in una presa d’atto pressoché intuitiva: occorre serenamente riconoscere che il videogioco non è l’unica attività significativa del tempo libero dei ragazzi di oggi, ma solo uno dei tanti svaghi confluenti nel multiforme caleidoscopio del loisir giovanile.

    Mario Morcellini è preside della Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Roma «La Sapienza».

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