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    Valore d’insieme

    Nel documento sulle vie italiane all’innovazione in Italia, pubblicato a più riprese nei giorni scorsi e ancora reperibile sulla nostra Home Page, dai diversi casi di successo presi in considerazione emerge il comune orientamento verso la creazione di piattaforme di incontro e di confronto in grado di aprire la ricerca a tutte le possibili sinergie settoriali e produttive.

    di Gian Piero Jacobelli

    Nella immagine, anzi nelle tre immagini con cui si aprono i tre articoli di Alessandro Ovi e Gianni Lorenzoni dedicati nei giorni scorsi alle vie della innovazione in Italia, si stagliano alcune silhouette di giovani che dialogano e si danno la mano. Sullo sfondo, il profilo urbano di una delle grandi città a oriente e a occidente del mondo, con una serie di icone che analizzano statisticamente i fenomeni di cui probabilmente i predetti giovani stanno parlando.

    A volte le immagini risultano più eloquenti delle parole e comunque possono aiutare a comprendere meglio le parole. In questo caso evidenziano due caratteristiche della “nuova” innovazione – ci sia consentita la ridondanza in funzione distintiva – che forse proprio in Italia, sia per un contesto culturale ancora (fortunatamente!) meno orientato e vincolato, sia per la persistente frammentazione del nostro tessuto produttivo, appaiono particolarmente incisive e funzionali: una sorta di modello operativo che, proprio in ragione della sua “marginalità”, può risultare interessante anche per il resto del mondo, come avvenne, per esempio, nel caso delle nostre piccole e medie imprese.

    Queste due caratteristiche che emergono dal documento a cui ci stiamo riferendo, potrebbero venire sintetizzate in un unico concetto, il “valore d’insieme”, che tende a declinarsi tanto da un punto di vista produttivo, quanto da un punto di vista organizzativo.

    Nel primo caso, si tratta della cosiddetta supply chain, che coinvolge le varie attività di un sistema imprenditoriale, includendo sia quelle a monte, l’approvvigionamento delle materie prime, sia quelle a valle, la distribuzione, vale a dire tutta quella serie di funzioni che consentono al prodotto di raggiungere i propri mercati potenziali. Al centro, ovviamente, la produzione, ovvero l’attività industriale vera e propria, in cui la istanza innovativa si esprime come ricerca di prodotto o di processo.

    Si può comprendere anche senza ulteriori approfondimenti quale ruolo fondamentale, nelle complesse procedure innovative chiamate in causa, rivesta la gestione dei flussi informativi, indispensabili per creare la infrastruttura di collegamento tra le varie professionalità e i vari addetti che partecipano e rispondono alla supply chain, ma anche per monitorarne la funzionalità e la rispondenza alle situazioni sociali ed economiche più generali.

    Nel secondo caso, il valore d’insieme acquista un significato altrettanto sistemico, ma anche specificamente comunicativo. Nel documento in questione si sottolinea opportunamente e ripetutamente la importanza che le diverse iniziative considerate – diverse per i soggetti coinvolti, imprenditoriali, accademici, personali – dispongano delle necessarie “piattaforme sinergiche”, in cui le buone idee e le buone metodologie possano fecondarsi reciprocamente, mettendo a fattore comune conoscenze, abilità, risorse intellettuali e materiali dei suoi molteplici protagonisti.

    Il concetto di piattaforma sinergica può e deve assumere implementazioni concomitanti, sia sul versante della domanda sia su quella della offerta: la logistica di una struttura in cui confluiscano accoglienza, servizi, formazione, promozione e via dicendo; la disponibilità di spazi attrezzati per le esigenze pratiche e sperimentali della ricerca; l’accesso a banche di dati scientifici e tecnologici, grazie a cui i ricercatori possano scambiarsi informazioni specializzate e collaborare a progetti comuni. In altre parole, è necessario predisporre le condizioni per una vera e propria “innovazione della innovazione”, a cui possa al tempo stesso partecipare e attingere la intera rete della ricerca scientifica e tecnologica italiana.

    Ovviamente, non è recente l’idea che l’incontro e il confronto di competenze disciplinari e settoriali diverse sia in grado di stimolare la creatività e di contribuire a superare quei punti morti delle ricerche che spesso sono dovuti proprio alla difficoltà di mutare “paradigma” teorico e pratico, di adottare metodologie diverse da quelle consuete, in una parola, di “pensare altrimenti”.

    Alcuni esempi tanto rilevanti quanto suggestivi possono venire reperiti anche nelle fasi fondative della nostra rivista, che risale alla fine degli anni Ottanta. Proprio in quei primi anni con Alessandro Ovi ci recammo a visitare il nuovissimo Media Lab del Massachusetts Institute of Technology, fondato nel 1985 da Nicholas Negroponte e ospitato nel Wiesner Building, progettato dall’architetto sino-americano Ieoh Ming Pei. Per farla breve. una delle caratteristiche qualificanti dello straordinario progetto che avrebbe contribuito a trasformare la ricerca mondiale sui new media, consisteva nella realizzazione di aree di incontro anche casuale, atri, scale, corridoi, in cui ricercatori e visitatori avessero modo di confluire, di intersecarsi, di conoscersi, di dialogare e di scambiarsi opinioni sulle loro diverse attività.

    Passando dalle esperienze personali ai “fatti di cronaca”, nel 1995, il grande matematico Andrew Wiles dell’Università di Princeton pubblicò sugli “Annals of Mathematics” la definitiva dimostrazione del celebre Teorema di Fermat, che nel 2016 gli valse il Premio Abel, vale a dire l’equivalente del Premio Nobel per la matematica. Per chi non lo sapesse, Pierre de Fermat formulò il teorema che ha preso il suo nome nel 1637, senza però renderne nota la dimostrazione: «È impossibile separare un cubo in due cubi, o una potenza quarta in due potenze quarte, o in generale, tutte le potenze maggiori di 2 come somma della stessa potenza. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina».

    Se si rileggono le vicissitudini affrontate nel suo lavoro di intricatissima analisi matematica, come le racconta il giornalista inglese Simon Singh in L’ultimo teorema di Fermat (Rizzoli 1999), ci si rende conto di quanto, sebbene volesse tenere riservati i risultati conseguiti, Wiles abbia sentito il bisogno di confrontarsi con alcuni amici e colleghi matematici, approfittando di pochi momenti di pausa e di molti boccali di birra: un modo per ribadire che, anche volendo procedere da soli, non si può fare a meno di sapere come la pensino gli altri, eventualmente anche con qualche agevolazione moderatamente alcolica.

    Cronaca, ma anche storia, se si pensa che, nello studio più noto dedicato nel secolo scorso (1962) alla innovazione scientifica (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi 1969), il grande epistemologo Thomas Kuhn basò la sua teoria su una radicale contrapposizione di “paradigmi”, il cui avvicendamento lascia sempre delle vittime sul campo, per la rapida inevitabile obsolescenza di studiosi, di organizzazioni e di localizzazioni.

    Un altro grande epistemologo come Karl Popper gli obiettò che la scienza si trova sempre implicata in una “rivoluzione permanente”, di cui ogni scienziato può e deve farsi carico. Ma il problema, per quanto ci riguarda, sta nel fatto che questa rivoluzione permanente oggi non avviene più soltanto nella mente o nel laboratorio di questo o di quello scienziato, ma avviene nell’intero ecosistema della ricerca.

    Si tratta di un “insieme” di situazioni e di circostanze, di “spazi” e di “tempi”, in cui e per cui lo scambio delle idee e delle esperienze può avvenire in permanenza e in concreto. Grazie anche alla prossimità reale e virtuale che le attuali installazioni italiane della ricerca, come Kilometro Rosso o Open Zone, citate nel documento da cui abbiamo preso le mosse, consentono in quella che è stata definita “mediasfera” per rimarcarne tanto la componente strumentale quanto quella relazionale.

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