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    Una guerra davvero virale

    La pandemia, che attraversa drammaticamente la nostra vita individuale e collettiva, ha creato una sorta di sentimento paranoide che ci fa vivere in una condizione di allarme permanente e caratterizza anche il modo in cui, nella pubblicistica culturale, si parla del Covid 19 come di un “nemico nascosto”.

    di Gian Piero Jacobelli

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    Nella odierna Newsletter di La lettura (venerdì 29 gennaio 2021), supplemento culturale del “Corriere della Sera”, a proposito delle relazioni tra uomini e animali, il filosofo della scienza Telmo Pievani, uno dei più interessanti e convincenti mediatori tra le cosiddette “due culture”, si sofferma su alcuni aspetti deteriori di queste relazioni, che tra l’altro, come a tutti è noto, figura tra le cause della pandemia da Covid 19.

    Le alterazioni degli ambiti vitali una volta riservati rispettivamente agli animali domestici, come noi siamo, e agli animali selvatici, soprattutto per quanto riguarda le abitudini alimentari, ha finito per creare connessioni improprie su cui si è veicolato il contagio virale che si è rapidamente diffuso in tutto il mondo. In proposito scrive Pievani che «la strategia dei virus è semplice: usare le cellule degli altri per diffondersi. Quindi i loro ospiti preferiti sono gli animali, soprattutto uccelli e mammiferi, che si muovono molto e hanno vita sociale. Purtroppo noi umani rientriamo nel menu, ma non siamo soli. Restringendo il campo ai coronavirus, si trasmettono tra i procioni, i ricci, i pangolini, le civette delle palme (che non sono uccelli, ma simpatici carnivori asiatici), i visoni, i cammelli, ma soprattutto tra i pipistrelli».

    Fermo restando che questa diffusione virale non è “colpa” dei pipistrelli né degli altri animali a cui si è imputata la trasmigrazione da una specie all’altra del virus predetto e maledetto, vorremmo però aggiungere che evidentemente non è neppure “colpa” del virus, su cui spesso si tende invece a proiettare quel sistema di intenzioni difensive e aggressive su cui si basano i comportamenti degli esseri umani, singolarmente e collettivamente. In effetti frequentemente – anche soltanto per “fare a capirsi” come nel caso di Pievani, il quale sulle caratteristiche vitali dei micro e dei macrorganismi ne sa molto più di noi – le espressioni metaforiche connesse alla “guerra” per la sopravvivenza intridono la prosa giornalistica.

    Da questo punto di vista, sembrerebbe impossibile comprendere le relazioni intraspecifiche e interspecifiche se non mediante il paradigma bellico. Un paradigma che, come ha scritto lo scrittore e saggista Antonio Scurati, tende a permeare l’intera, lunghissima “catena dell’essere” e del “raccontare”, perché «nell’era del terrorismo mediatico globale, la guerra è divenuta addirittura una rappresentazione rassicurante». 

    Senza dubbio, quella che Scurati chiama «la cultura marziale dell’Occidente», vale a dire la tendenza a tradurre i pericoli interni in guerra aperta, rappresenta anche un modo di esprimere, mettendolo “simbolicamente” fuori, il disagio, per non dire il timore che si prova nel doverci confrontare con una presenza radicalmente aliena: non soltanto invisibile, ma anche incomunicabile se non, appunto, nello spietato “gioco a perdere” della eliminazione reciproca, di una sopravvivenza che tende a impedire all’altro di sopravvivere.

    Tuttavia, un virus non è propriamente quello che noi intendiamo per essere vivente, ma piuttosto un algoritmo di propagazione, per cui anche la parola “sopravvivenza”, per quanto comporta di emozionale e di motivazionale, appare fuori posto. Un virus non sopravvive, ma vive, e vivere, da questo punto di vista, è meno di sopravvivere. In altre parole, un virus non mette in atto alcuna “strategia”, ma semplicemente fa quello che la sua natura gli consente di fare, senza sapere perché lo fa e neppure, ovviamente, come lo fa. 

    Un virus si moltiplica là dove sussistano le condizioni per farlo, dove le sue strutture genetiche possano duplicarsi e di diffondersi; un virus non “attacca” l’uomo, ma semplicemente considera l’uomo, ogni uomo, un poco come noi consideriamo il mondo: un luogo che ci consente, in maniera più o meno favorevole, di moltiplicarci.

    Per altro, ci rendiamo conto che, parlando di “considerare” l’uomo o il mondo a proposito di questa entità biologica soggetta esclusivamente alla selezione naturale, sfioriamo insidiosamente i confini della intenzionalità culturale. Dunque, lasciamo parlare del virus chi possiede la competenza per riconoscerlo e per eliminarlo, se e quando possibile. 

    Rivolgiamo piuttosto la nostra attenzione alle ragioni che ci spingono a proiettare anche là dove non può albergare la consapevolezza dei propri fini e dei mezzi per conseguirli, gli stessi paradigmi conflittuali che, diciamolo senza mezzi termini, da sempre avvelenano la nostra vita, celandosi nella portata emozionale della sopravvivenza.

    Il fatto è che, come dimostrano anche le pervasive mitologie delle origini, non riusciamo a pensarci se non come protagonisti di una grande, permanente battaglia per la vita e la morte. Il che, purtroppo, in tutto l’arco della historia rerum gestarum, ma purtroppo anche in quello delle res gestae, ha finito spesso per deporre a favore della morte piuttosto che della vita. 

    In una poesia intitolata Promemoria scriveva Gianni Rodari, del quale pochi mesi fa abbiamo ricordato il centenario della nascita: «Ci sono cose da non fare mai, / né di giorno né di notte, / né per mare né per terra: / per esempio, la guerra». Potremmo aggiungere, ai versi cantabili di Rodari, un distico assai meno ispirato, ma altrettanto sconsolato: “Né scrivendo né parlando. / Se non ora, allora quando?”.

    (gv)

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