Ogni nuovo fascicolo della edizione americana di MIT Technology Review, nella sua coerente varietà, consente, se confrontato con i precedenti, e in particolare con le immagini e i titoli di copertina, di cogliere gli andamenti – continuità e discontinuità – del contesto scientifico e tecnologico mondiale.
di Gian Piero Jacobelli
Quando mi è stato recapitato il fascicolo “estivo” (luglio-agosto) di MIT Technology Review USA, mi sono reso conto che qualcosa non tornava.
Qualcosa non torna, e perciò fornisce utili spunti di riflessione, in almeno due sensi possibili. Entrambi, per altro, frutto di una comparazione tra il prima e il dopo, nella fattispecie tra l’ultimo fascicolo e i precedenti.
Cominciamo dal primo, quello che si potrebbe definire come il senso della confusione creativa. Da tempo, ho avuto modo, anche sulle pagine della edizione italiana della nostra rivista, di proporre una sorta di “elogio della confusione”, intesa come strumento apotropaico per muoversi senza fatui e narcisistici allarmi tra la congerie di istanze innovative che caratterizzano la contemporaneità.
Il mondo cambia quotidianamente e, per evitare di rinchiudersi in una ripetitiva e presuntuosa predicazione apocalittica, giova porre in atto un sistematico esercizio interpretativo, non tanto allo scopo d’imporre presunti e anacronistici equilibri a una realtà “schiumosa” e pullulante, quanto per cogliere la eventuale emergenza di nuovi equilibri. Cominciando, per esempio, proprio dalle copertine di MIT Technology Review USA, che possono facilmente venire “riscoperte” nel sito on line.
Nel fascicolo di marzo-aprile faceva bella mostra di sé la fotografia di un tappeto zebrato dell’artista Brendan Monroe, su cui si stagliava in rilievo ottico il numero dieci, a rappresentare le dieci tecnologie che quest’anno promettono, o minacciano, di cambiare davvero le cose.
Tecnologie caratterizzate, come sottolineava Jason Pontin nel suo editoriale, tanto interdisciplinari, cioè trasversali e connettive, quanto concretamente ancorate alle esigenze espresse dal “corpo”, individuale o collettivo.
Il fascicolo successivo, quello di maggio-giugno, sembrava, invece, avere commutato il codice, concettuale ed emotivo: non più un “fare” operoso e tutto sommato proficuo, ma un “pensare” curioso e ansioso, all’insegna di quella “macchina misteriosa” che Keith Rankin rappresentava come un cubo nero in cui una fonte di luce multicolore traduceva le “luminose” certezze precedenti in imprevedibili, ma altrettanto “luminose” incertezze.
In quel caso, Jason Pontin interveniva due volte: per criticare i tagli dell’Amministrazione Trump agli investimenti pubblici nella ricerca e per confrontarsi in maniera definitiva con un troll (nel gergo di Internet, «soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi»). Forse lo stesso discorso, che concerne sia la rete della politica, sia la politica della rete.
Due mesi dopo, nel fascicolo di luglio-agosto, la prospettiva della scienza e della tecnologia recuperava una tonalità operosa, nel minuto e frizzante disegno di David Biskup, in cui uomini e macchine si tendono reciprocamente la mano, per adempiere ai compiti di questo e dell’altro mondo: il mondo dove l’uomo potrà fare di più, ma forse non sarà più protagonista.
Insomma, una doccia scozzese, come si diceva una volta per indicare l’alternanza di getti di acqua calda e fredda, o per traslato di notizie buone e cattive. Ma questo è il punto: a parte talune forzature giornalistiche, le docce scozzesi possono fare bene quando rimuovono il torpore attonito della società dello spettacolo e la euforica rassegnazione di un consumismo incallito. Ribadendo quel “piacere della discontinuità” che, a mio avviso, costituisce la vera e propria “innovazione sentimentale” del nostro tempo.
Questa volta, però, non c’era Jason Pontin a commentare i contenuti del fascicolo: e questo è il secondo senso di quel qualcosa che non tornava, cui accennavo all’inizio. In questi ultimi mesi, infatti, Jason Pontin ha lasciato MIT Technology Review USA, muovendo verso diverse avventure professionali e intellettuali. Avendolo tenuto per tanti anni come prezioso punto di riferimento, al di là dell’oceano Atlantico delle differenze culturali, questa sua scelta non può non suscitare un amichevole rammarico. Accompagnato, tuttavia, dalla speranza di ritrovarlo su versanti altrettanto stimolanti e importanti delle montagne russe, scientifiche e tecnologiche, su cui stiamo rischiosamente evolvendo.
Buon lavoro, Jason, e a presto.