Si discute con crescenti preoccupazioni sugli effetti economici della pandemia e sui provvedimenti per farvi fronte, ma, salvo alcune significative eccezioni, non vengono ancora presi in sufficiente considerazione gli effetti, già percepibili e rilevanti, di carattere psicologico e sociologico a medio e lungo termine.
di Gian Piero Jacobelli
Le prime pagine di tutti i giornali sottolineano in questi giorni il grande impegno, finanziario e programmatico, richiesto dagli effetti economici della pandemia, che sta minacciando gli equilibri produttivi e commerciali di tanta parte del mondo, inclusi il nostro e gli altri paesi europei.
Questa talvolta pletorica e spesso disorientante attenzione per i problemi della sopravvivenza materiale ha prevalso nella pubblica opinione sulla attenzione per gli “effetti secondari”, quelli di carattere sociologico e psicologico, che soltanto in queste ultime settimane stanno emergendo nella pubblica opinione.
Per esempio, il 21 luglio “la Repubblica” pubblicava un commento del filosofo e psicoanalista Massimo Recalcati sulla «violenza rissosa e dilagante nel mondo della cosiddetta movida giovanile», che l’autore attribuiva al «ritiro sociale» e in particolare alla perdurante istanza di «introvertirsi dentro il bozzolo autistico della propria stanza».
Questa istanza si è corredata mese dopo mese di reiterate raccomandazioni in merito alle cautele da adottare nelle relazioni sociali: in particolare quella del distanziamento che, per quanto necessaria, la dice lunga sulle alterazioni che il rischio pandemico sta provocando nei consueti regimi della convivenza.
Alterazioni che non si limitano a quelle congiunturali, perché tendono a mettere in crisi non soltanto i normali comportamenti consapevoli, ma anche quella inconsapevole percezione dei parametri sociali che orientano il nostro senso di essere nel mondo: quello che l’imperatore Marco Aurelio nei suoi Colloqui con se stessodefiniva come il “posto proprio”, il posto che la sorte e l’indole ci hanno riservato.
Al “posto proprio” afferiscono sia il modo di comportarsi gli uni con gli altri, secondo le regole inespresse della prossemica e del linguaggio del corpo, sia il modo di comunicare anche linguisticamente in relazione alle differenze di provenienza, di appartenenza e di importanza gerarchica.
Per altro, dopo i danni manifesti della pandemia sullo “spazio” e quindi sulle relazioni spaziali, ci si comincia a rendere conto di quanto altrettanto rilevanti siano, per dirla in maniera emblematica, i danni sul “tempo”, che non riguardano soltanto i nostri rapporti con gli altri, ma anche i nostri rapporti con il nostro passato e il nostro futuro.
Lo stesso Recalcati, nell’articolo citato, segnalava quel «sentimento profondo di insicurezza e di incertezza nei confronti del futuro» che sta insidiando soprattutto i giovani, ma non soltanto. Il tempo della memoria e il tempo della prospettiva sembrano compromessi nella stretta di un presente assediato da una precarietà che al tempo stesso lo cristallizza e lo depotenzia nei suoi valori emotivi e creativi.
Ma si registrano effetti anche più insidiosi, che non si limitano alla scoraggiante impossibilità di guardare avanti e indietro, per relativizzare e quindi ripensare incessantemente il fluire di una vita che non sembra più in grado di dialettizzare il “qui e ora” con il “là e allora”.
Per non restare ad affermazioni generiche, sarà opportuno mettere a fuoco in maniera specifica due di questi effetti, insidiosi perché rizomatici: quello che potremmo definire come un effetto “di calendario” e quello che potremmo definire come un effetto “di agenda”.
Quanto al primo, è presto detto: quanti di noi hanno programmato le ferie, nel senso piuttosto rigido e compulsivo in cui lo si faceva negli anni scorsi, quando le mete, di mare o di montagna o di altro, riflettevano il piacere della scoperta e della riscoperta? Stando alla cronaca giornalistica, da cui abbiamo preso le mosse, quest’anno sembra piuttosto che ci si affidi alla improvvisazione, un poco perché la pandemia ha alterato i consueti criteri spaziali della stanzialità e della logistica, ma un poco anche perché in qualche modo sono stati sconvolti i riferimenti temporali a cui eravamo abituati; in particolare le cicliche alternanze tra il tempo del lavoro e il tempo dello svago, nell’arco dell’anno, ma anche in quello della giornata.
A questo proposito, molti si lamentano del lavoro traferito dall’ufficio alla casa, non perché sia più faticoso, tutt’altro, ma perché, oltre a una sofferta carenza relazionale, rimuove le tanto subite, quanto ambite cadenze dell’entrare e dell’uscire, volta a volta dal tempo occupato e dal tempo libero.
Forse nell’ambiente domestico si lavora persino meno ore di quelle contrattualmente previste, ma certamente queste ore non si affrontano più in una sequenza prestabilita e quindi finiscono per invadere la intera giornata, talvolta notte inclusa: 24 ore su 24, come si usa dire. Insomma, non possiamo più né perdere tempo né guadagnare tempo, giocando autonomamente con i ritmi di una vita sempre meno nostra.
Smarriti o quanto meno resi precari il senso dello spazio e il senso del tempo, cosa resta? Non sorprende a questo punto che i comportamenti prevalenti, soprattutto quelli dei giovani che più hanno sofferto della reclusione forzosa, si stiano orientando verso opposizioni spesso deliranti, tra la rinuncia e la pretesa, tra la rassegnazione e la esaltazione, ma anche purtroppo tra la solidarietà e la intolleranza e perfino tra la moderazione e la violenza.
Da un eccesso all’altro, potremmo dire, così cogliendo la relazione profonda intercorrente tra la convivenza e la mediazione, che consente di andare e venire, di allontanarsi e di avvicinarsi, ma anche di essere sia in un modo sia nell’altro, compensando un modo con l’altro, per vincere l’assedio dello spazio e del tempo, articolandoli funzionalmente ed emotivamente.
Riesumando un calco gergale di pessima memoria, oggi potremmo dire: «Aridatece lo spazio e il tempo», che da sempre ci hanno messo in crisi per la intollerabile cogenza del “qui e ora” e del “là e allora”, ma che oggi auspichiamo di “rimettere in mezzo”, per recuperare un più meditato e mediato negoziato tra il “dove” e il “quando”.
(gv)