Del futuro si continua a parlare spesso in una prospettiva meramente retorica e spettacolare, nonostante che, per rispondere alle esigenze del presente, del futuro non si possa fare a meno, poiché molti problemi di oggi richiedono tempi lunghi per venire affrontati e se possibile risolti.
di Gian Piero Jacobelli
Il linguaggio parla del mondo, ma parla anche del linguaggio stesso: in questo metalinguaggio, i concetti a cui facciamo riferimento, le parole che usiamo per esprimere questi concetti costituiscono un esercizio di consapevolezza rispetto alle non sempre evidenti e spesso contraddittorie intenzionalità sottese alle argomentazioni con cui vengono motivati comportamenti e azioni.
Questo breve preambolo sulla funzione rivelatrice del metalinguaggio, che serve a rendere manifesto quanto nel parlare si cerca di nascondere, magari senza rendersene conto, rinvia a qualche concisa considerazione su una parola a cui nel bene e nel male arride un significativo anche se problematico successo: il “futuro”, che secondo alcuni oggi appare carente e che secondo altri appare eccessivo.
In un articolo apparso nei giorni scorsi sulla nostra rivista e ancora presente sulla homepage, Richard Fisher, rilevando che «abbiamo menti in grado di immaginare un futuro profondo e possiamo concepire la scoraggiante verità che la nostra vita è un semplice lampo nel tempo infinito», afferma con rammarico che «anche se possediamo questa capacità, la impieghiamo raramente nella vita quotidiana», per concludere chiedendosi: «Perché siamo così bloccati nel presente?».
Per la verità questa preoccupazione nei confronti di una incapacità che potremmo definire “progettuale” e che sembra frenarci nel proiettarci oltre la situazione attuale, ha come riscontro una sorta di sconcertante “deriva futurologica” incline ad andare oltre il presente più a parole e meno nei fatti. Una deriva inevitabilmente ambigua, poiché ipotizza un futuro polemicamente diverso dal presente senza per altro rendere il futuro davvero alternativo al presente, di cui tende a conservare tutti gli squilibri e tutte le tensioni conseguenti.
Non è difficile intuirne la ragione: in questo modo si possono tutelare gli interessi particolari, il proprio essere più uguali degli altri, conferendo tuttavia a questi interessi una fatalistica generalità, quasi che non appartengano a qualcuno, ma alla intera comunità mondiale, come vorrebbe dimostrare la sua acritica estrapolazione.
Non sono in questione le scelte politiche, ma i condizionamenti del pensare e, in particolare, del pensare al futuro che, spesso si risolve in una mistificante pensare al presente. Verrebbe di argomentare “contro il futuro”, quando il futuro assume i tratti di una fuga in avanti che serve soltanto a chi vuole darla a intendere.
Non si possono, ovviamente, ignorare quei problemi le cui soluzioni non possono che trovarsi nel futuro, per i tempi lunghi necessari a porle in atto, e che però stanno diventando una sorta di retorica narrativa. Non a caso, per esempio, nel ribadire quanto sia necessario darsi da fare nell’affrontare le difficoltà delle disuguaglianze sociali ed economiche, dell’inquinamento e del clima, delle risorse energetiche, della salute e della fame nel mondo, degli squilibri demografici e delle migrazioni, della carente alfabetizzazione e delle reti digitali, non manca mai qualche recriminazione su quanto tempo si sia perduto e su quanto poco tempo rimanga per porre in atto i necessari interventi.
A questo proposito, sempre più spesso ci si chiede cosa impedisca di varare tempestivamente i provvedimenti che tutti considerano, se non a portata di mano, senza dubbio praticabili, purché li sostenga una volontà comune. Altro che globalizzazione! Si direbbe che il mondo sia attualmente più diviso di prima, quando deprecabilmente la logica del dominio lo teneva, almeno in buona parte, unito.
Più che la logica, qualsiasi logica, oggi sembra prevalere la retorica, non tanto nel senso aristotelico di un modo di argomentare che era anche un modo di ragionare, e nemmeno in quello, più moderno e aggressivo, del convincere per vincere. La retorica, infatti, si sta trasformando nello strumento deputato per spostare i problemi sempre più avanti e altrove: uno “schermo” – nel duplice senso di riprodurre e di nascondere le cose (situazioni o avvenimenti) – che, nella sua pretesa di realtà, costituisce l’insidioso riflesso metaforico di quanto si registra negli schermi mediatici, prima analogici, ora digitali.
Per concludere con una sorta di gioco di parole, se è vero che non ci può essere un futuro senza un presente, è anche vero che il presente, per avere un futuro, deve riuscire ad affrontare le proprie contraddizioni prescindendo dal futuro, quando il futuro tende a diventare un espediente per imbrigliare il presente.