Il dibattito sulle relazioni tra naturale e artificiale trova esempi e spunti sempre più frequenti e significativi, anche se, a conti fatti, il problema sembra possedere una valenza più concettuale, quando non nominalistica, che sostanziale.
di Gian Piero Jacobelli 30-10-19
“Parliamo della paura”, scriveva Stephen King nella prefazione di A volte ritornano, la sua celeberrima raccolta di racconti del 1975, da cui Tom McLoughlin ha tratto nel 1991 il film omonimo. A tornare era ed è, appunto, la paura, quella paura che, paradossalmente, i tanti supporti tecnologici della modernità non sembrano mitigare, ma anzi rendono ancora più acuta e problematica.
La si potrebbe definire come la paura dell’artificiale, per riprendere l’argomento su cui, in Italia, ha soprattutto riflettuto Massimo Negrotti, docente alla Università di Urbino e frequente collaboratore anche della nostra rivista.
In numerosi libri e saggi Negrotti ha ripetutamente sottolineato che, se tutti i dispositivi artificiali sono macchine, non tutte le macchine sono dispositivi artificiali, ma soltanto quelle che cercano di replicare o migliorare le potenzialità naturali. Nella prospettiva di Marshall McLuhan, secondo cui le tecnologie costituiscono prevalentemente, o forse sempre nella loro formulazione intenzionale (qualcosa che serve a fare meglio quanto riusciamo “umanamente” a fare), delle protesi del corpo.
Naturale e/o artificiale? Il problema se si tratti di una antinomia o di una coalescenza non cessa di tornare a ogni giro di boa della tecnologia e delle sue implementazioni, talvolta per misurarne la rispondenza a quanto già si faceva altrimenti e talvolta per rivalutare un poco nostalgicamente questo “altrimenti”.
Come al solito, queste nostre riflessioni scaturiscono dalla considerazione e dalla comparazione, “a volo di uccello”, delle notizie apparse nell’ultimo messe sulla nostra Home Page: notizie che a più riprese, e non per caso, si sono soffermate sulla relazione, a volte negativa e a volte positiva, ma sempre suggestiva, tra naturale e artificiale.
A cominciare dall’articolo di Haley Cohen Gilliland sul frequente impiego dei delfini da parte della Marina statunitense per localizzare le mine sottomarine: meglio i delfini, conclude Cohen Gilliland, dei droni dotati di sonar, che non sono in grado di distinguere sul fondale gli oggetti pericolosi dai rifiuti innocui.
Significativo il commento di Mark Xitco, direttore del Naval Marine Mammal Program: “La nostra tecnologia migliora ogni anno. Stiamo facendo passi da gigante, ma i delfini hanno un vantaggio di milioni di anni!”. Come se potesse esserci una qualche concorrenza tra la evoluzione naturale e la evoluzione tecnologica, che della prima costituisce, come si è accennato, una appendice protesica.
Per contro, qualche giorno prima, in un articolo tratto da ArXiv si dava notizia della capacità dei grandi sistemi computerizzati di risolvere il tradizionale “problema dei tre corpi”: fondamentale nel XVIII secolo per determinare la posizione di una nave in base alla posizione reciproca di Luna, Sole e Terra, ma oggi altrettanto fondamentale per determinare, sul piano astrofisico, la struttura degli ammassi stellari globulari e dei nuclei galattici.
La soluzione dei ricercatori della Università di Edimburgo prevede l’impiego di reti neurali, che si chiamano “neurali” perché ispirate ai modelli biologici su cui si basano i processi della intelligenza umana. In questo caso il dispositivo artificiale sembrerebbe più efficiente, almeno sul compito specifico, di quello naturale.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma qui ci limiteremo a segnalare come il rapporto concorrenziale tra naturale e artificiale tenda a riprodursi anche nell’ambito dell’artificiale, tra un approccio meno e un approccio più evoluto.
La cosiddetta “supremazia quantistica” nel campo dei computer recentemente sostenuta da Sundar Pichai, Ceo di Google, non comporta semplicemente un incremento delle prestazione di calcolo, ma un radicale salto qualitativo, molto oltre la stessa Legge di Moore, e però questo salto qualitativo comporta che si faccia un passo indietro dall’artificiale al naturale: “L’universo funziona fondamentalmente in modo quantistico, quindi questi studi ci permetteranno di capire meglio la natura. Siamo alle fasi iniziali, ma la meccanica quantistica brilla per la sua capacità di simulare molecole, processi molecolari, e penso che sia il suo punto di forza”.
Insomma, la opposizione tra naturale e artificiale tende a risolversi in un gioco concettuale, in cui ciò che viene prima viene definito naturale e ciò che viene dopo artificiale. In altra occasione abbiamo definito il virtuale come “una mediazione in più”, proprio per sottolineare quanto sia importante educare alla innovazione, per non cadere in preda di sindromi luddiste o progressiste e per affrontare il cambiamento tecnologico come una opportunità da valutare senza pregiudizi e senza le “paure che tornano” di cui abbiamo parlato all’inizio.
Ci conforta, in questa nostra istanza “etica”, un’altra notizia, intitolata Contrordine: stare davanti a uno schermo fa bene, che ancora si può leggere sulla nostra Home Page. Chi l’avrebbe mai detto, dopo tante demonizzazioni dello schermo che schermerebbe la realtà? Eppure, uno studio dell’Oxford Internet Institute, condotto su 35mila bambini americani, afferma che chi usa un dispositivo digitale, avrebbe migliori capacità di socializzazione rispetto a chi non ne fa uso. Ovviamente, cum grano salis: il troppo stroppia sempre ed è quindi necessario distinguere tra un uso eccessivo, un uso moderato e, come sembrerebbe più opportuno, un uso saltuario.
Come predicava l’antico proverbio, “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Un colpo al naturale e un colpo all’artificiale, per restare in argomento.
(gv)