Steve Jobs se ne è tragicamente andato, come d’altronde era nel suo personaggio, fatto di colpi di scena, di entrate e uscite improvvise, di una costante, carismatica esposizione. Per quanto prevedibile, a causa del progredire incessante della malattia che lo aveva colpito qualche anno fa e che persino un uomo ricco, potente e geniale come Jobs ha potuto soltanto rallentare, ma non sconfiggere, la sua scomparsa sta suscitando una commozione mondiale, con tante voci di consenso in merito alla importanza della sua visione e poche voci di dissenso in merito alla sua aggressiva e ingombrante presenza sul mercato della comunicazione digitale.
di Gian Piero Jacobelli
Anche queste ultime, per altro, come quella di Richard Stallman, il guru del sofware libero, non fanno che sottolineare la pervasiva rilevanza della sua personalità e, si direbbe oggi, del suo progetto: un progetto che certa- mente aveva tratti dominanti, connessi a una logica di esclusività e non di partecipazione collaborativa, ma che altrettanto certamente ha contribuito a conferire a un “luogo comune” come la rete quella innovativa funzionalità che la rende un “luogo eccellente”, buono per tutti, per chi persegue obiet- tivi di condivisione e per chi, invece, persegue obiettivi di distinzione.
Da questo punto di vista, forse più di altri Jobs ha contribuito a cambia- re la nostra vita, ridisegnandola esteticamente, eticamente e anche conosci- tivamente, come una sorta di messia nel senso specifico del messianismo occidentale, che non presuppone rivoluzioni immediatamente evidenti, ma la mera sensazione che sia davvero successo qualcosa. In effetti, ogni gior- no di più e, nel nostro caso, ogni fascicolo della rivista di più, ci rendiamo conto che è veramente successo qualcosa, al di là delle stesse metamorfosi sociali e politiche e delle mediamorfosi tecnologiche e culturali, che si sus- seguono a ritmi accelerati.
Questo qualcosa può venire sintetizzato in quella dimensione di rete che costituisce la profonda, autentica novità del nostro tempo e che Jobs ha saputo impareggiabilmente interpretare in teoria e in pratica. Rete non significa, come diceva Edward Lorenz, che «un battito d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas»; non significa che viviamo in un mondo caotico in cui da piccole cause possono scaturire grandi effetti. Significa piuttosto che tutto si tiene in maniera sistemica; che tutto può veni- re influenzato da tutto e a sua volta influenzare tutto, in un sistema raziona- le di connessioni che si fecondano e si promuovono vicendevolmente, come battiti d’ali che non provocano uragani, ma altri battiti d’ali.
Basta considerare le provenienze disparate dei giovani ricercatori con le cui idee promettenti si apre questo fascicolo, per rendersi conto come, accanto alle loro estrazioni locali, che ne orientano e ne motivano gli inte- ressi, agisca oggi qualcosa di globale, che ne sollecita e ne agevola le oppor- tunità: di conoscere e di fare conoscere. Chiamiamola rete, purché non si pensi soltanto a un supporto tecnologico di circolazione e distribuzione delle informazioni, ma anche e forse soprattutto a quelle connessioni e relazioni interpersonali, che consentono ovunque e comunque di “esserci”.
Non a caso, proprio in questo fascicolo, in cui la nuova testata esprime appunto la dimensione di rete, s’inaugura la rubrica TR Mondo che, allar- gando alle edizioni tedesca e indiana di “Technology Review” le preceden- ti segnalazioni dalla edizione cinese, apre un’autorevole finestra su aree geo- politiche ed economiche sempre più rilevanti dal punto di vista della ricer- ca e della innovazione, illustrando con immediata evidenza perché una volta si diceva che andiamo verso il mondo, mentre oggi si può dire che è il mondo a venire verso di noi. (g.p.j.)