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    Un archivio per il carbonio

    Le tecnologie per togliere di mezzo l’anidride carbonica  in eccesso.

    di Luca Longo

    Oggi facciamo un salto nel futuro. Un futuro prossimo in cui i centri ricerche in tutto il mondo hanno inventato tecniche efficaci per catturare l’eccesso di anidride carbonicadispersa in atmosfera e intercettato quella che esce coi gas di scarico da ciminiere e tubi di scappamento. Un futuro in cui i governi hanno indirizzato e sostenuto questo impegno e le industrie hanno sviluppato e messo in produzione impianti commerciali basati su queste invenzioni. 

    Ora che abbiamo tolto di mezzo tutta la CO2 di troppo, i raggi solari non vengono intrappolati dall’eccesso di anidride carbonica in atmosfera, l’effetto serra che ci permette di vivere su un pianeta dal clima temperato è tornato a livelli normali. Anche la temperatura non aumenta più: il cambiamento climatico è stato arrestato. Siamo salvi. Molto bene ma… ora dove mettiamo tutto il carbonio che abbiamo acchiappato? 

    Abbiamo provocato il riscaldamento eccessivo nell’atmosfera liberando tutta insieme, in circa un secolo e mezzo, una enorme quantità di carbonio che la natura aveva provveduto a catturare e a nascondere nei giacimenti di petrolio e di gas nel corso di centinaia di milioni di anni.  

    Ora, rimettere le cose a posto è un po’ come tentare di rimettere il dentifricio nel tubetto. E pure peggio, visto che il nostro tubetto è di dimensioni planetarie. 

    Il problema di sottrarre al normale ciclo del carbonio una grande quantità di questo elemento è tutt’altro che banale. E molti centri ricerche sparsi per il mondo stanno studiando e mettendo in pratica diversi metodi – alcuni semplici, altri complicatissimi – per farlo. Vediamoli un po’. 

    Se vogliamo mettere fuori dalla circolazione un gas come la CO2 tal quale, abbiamo bisogno di un serbatoio isolato che la trattenga e non la lasci più sfuggire. 

    Per riportare l’anidride carbonica atmosferica ai valori preindustriali, dobbiamo calarne la concentrazione dai circa 400 parti per milione (ppm) attuali, alla metà di questo valore. Visto che la massa totale dell’atmosfera terrestre è di circa 5 milioni di miliardi di tonnellate, si tratta di trovare un buon posto per mettere via circa mille miliardi di tonnellate di CO2. A qualunque pressione riuscissimo a comprimerla, avremmo bisogno di tutto l’acciaio della Terra.  

    Una buona alternativa è andare a cercare dei serbatoi enormi, ma già pronti e disponibili in cui iniziare a mettere almeno una parte di tutta la CO2. Questi si trovano sotto terra e non sono altro che i giacimenti di gas e petrolio esauriti. Se questi sono riusciti a trattenere gli idrocarburi per milioni di anni in attesa che noi li estraessimo, allora sono serbatoi più ermetici e resistenti di qualsiasi altro contenitore che possa mai essere costruito dall’uomo.  

    Anche le tecnologie per spingere l’anidride carbonica nei giacimenti esauriti sono relativamente semplici: si tratta di pompare un gas nel sottosuolo invece che di tirarlo fuori. Già da decenni il gas naturale estratto durante l’estate, quando la domanda è minore, viene purificato ed iniettato in acquiferi profondi per recuperarlo nuovamente quando, in inverno, cresce la domanda. 

    Spesso alcuni gas – o anche l’acqua – possono essere immessi in giacimenti in corso di sfruttamento per rimpiazzare gli idrocarburi che sono stati già estratti e spingere fuori l’olio o il gas naturale che ancora nascondono. Si chiama “Enhanced Oil Recovery”. Recentemente la IEA ha stimato che con questo processo si potrebbero stivare nelle viscere della terra da 60 a 240 miliardi di tonnellate di CO2 recuperando nel processo fino a 375 miliardi di barili di petrolio in più.  

    Una soluzione alternativa è sfruttare bacini di acqua salata che si trovano a grande profondità dove la CO2 viene pompata ad alta pressione. A partire da 850 metri sotto il livello del mare, l’anidride carbonica viene compressa dagli strati di roccia sovrastanti fino a passare allo stato liquido. Lentamente si mescola con l’acqua salata già presente, reagisce e precipita come carbonato solido diventando parte della roccia stessa. 

    Possiamo sentirci a disagio pensando che questi serbatoi geologici di CO2 non hanno pareti e confini ben definiti e controllabili. Ma non dobbiamo preoccuparci di perdite incontrollate: sono numerosi i ritrovamenti di giacimenti colmi di anidride carbonica che si trovavano indisturbati a varie profondità da milioni di anni. Inoltre, anche prima che si sia realizzato il processo di precipitazione, le bollicine di CO2 vengono già intrappolate nelle piccole fratture fra le rocce per effetto della capillarità rimanendovi definitivamente incastrate. 

    Una seconda classe di soluzioni consiste nel trasformare l’anidride carbonica da gas a solido, realizzando qualcosa dove il carbonio è più concentrato e meno volatile, quindi non in grado di tornare facilmente in circolo. La prima soluzione è sfruttare la natura e usare gli alberi, che crescono proprio catturando CO2 dall’atmosfera e trasformandola in tronco, rami, foglie, fiori e frutti grazie all’energia solare. Ma la ri-forestazione può eliminare solo l’eccesso di carbonio prodotto in epoca storica dalla de-forestazione.  

    Un’altra tecnica consiste nel trovare un modo per inserire il carbonio solidificato direttamente nel terreno. In questo caso, occorre anche trovare qualche trucco per evitare che il carbonio diventi preda di microorganismi che degradino questa sostanza organica ritrasformandola in anidride carbonica per poi liberarla di nuovo in atmosfera. 

    Una buona idea sembra quella che viene chiamata “bio-char”. Se raccogliamo gli scarti agricoli e forestali – che contengono il carbonio estratto dall’atmosfera – e li sottoponiamo a pirolisi (cioè li bruciamo in speciali ossidatori in condizioni di bassa concentrazione di ossigeno) si sviluppano dei gas, che possiamo poi bruciare come combustibili liberando parte del carbonio introdotto, ma otteniamo anche del carbone di legna dove è rimasta intrappolata una grande frazione di carbonio. A questo punto, mescolando questo carbone di legna con la terra, otteniamo un terreno più fertile di quello di partenza. Infatti, i frammenti di carbone mescolati al terriccio trattengono l’acqua e i nutrienti presenti permettendo di estendere coltivazioni o foreste in aree prima non adatte.  

    Uno studio del Pacific Northwest National Lab di Washington stima che si possono così intercettare fino a 1,8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente all’anno, pari a circa il 12% delle emissioni attuali. 

    Una seconda soluzione è quella di sfruttare le interazioni fra le rocce e l’anidride carbonica atmosferica. Questo processo naturale – ed estremamente lento – fa sì che la CO2 che entra a contatto con la roccia reagisca trasformandosi in bicarbonati che mineralizzano sulla superficie della roccia stessa. Per rendere più rapido il processo, si tratta di estrarre dal suolo rocce ignee come il basalto, sbriciolarle finemente e distribuirle su ampie superfici di terreno massimizzando l’area di contatto fra roccia e atmosfera e quindi accelerando il processo. 

    Uno studio dell’Università di Sheffield ha calcolato che se si sbriciola finemente basalto – o ancora meglio una roccia chiamata harzburgite – distribuendolo in dosi di 1-5 kg per metro quadrato su una superficie di 20 milioni di km2 ogni anno, si otterrebbe entro il 2100 un abbassamento della temperatura globale pari a quasi un grado C nel caso del basalto, e fino a 2,2 gradi C nel caso della harzburghite. 

    Il problema consiste nell’enormità del piano: dovremmo estrarre più roccia dalle cave di basalto di quanto carbone estraiamo oggi dalle miniere. E lo sbriciolamento e la distribuzione delle pietruzze su una superficie più vasta della Russia comporterebbe problemi logistici (e tutt’altro che trascurabili emissioni di nuova anidride carbonica per fare funzionare cave, frammentatori, camion e bulldozer). 

    Una variante di questa soluzione, sviluppata alla Columbia University, non prevede grossi spostamenti. Si tratterebbe di frammentare le rocce sul posto con una tecnologia simile al fracking che si usa soprattutto negli Stati Uniti per estrarre olio e gas da matrici argillose. Una volta fratturate le rocce, si inietta anidride carbonica direttamente dentro le fratture. Ad esempio idrofratturando la peridottite in una fetta di crosta oceanica che affiora nel Sultanato dell’Oman, si può dispacciare più di un miliardo di tonnellate di CO2 soltanto entro i confini di quel Paese. 

    In pratica, invece di esporre le rocce all’atmosfera si fa il contrario: si inetta l’anidride carbonica concentrata all’interno delle rocce stesse per poi pietrificarla per sempre, come i cattivi delle favole. 

    E’ molto probabile che nessuna soluzione, da sola, potrà risolvere il problema globale dello stoccaggio del carbonio in eccesso. Dovremo fare ricorso a un intero portafoglio di tecnologie che includa forestazione, stoccaggio nel terreno e nei giacimenti profondi. E queste soluzioni dovranno essere implementate su grande scala per essere efficaci ed al contempo economicamente sostenibili.  

    Inoltre, queste soluzioni di dispacciamento del carbonio dovranno essere affiancate a tecnologie per rendere più efficienti le nostre attività ed emettere meno nuovo carbonio, allo sviluppo dell’economia circolare e delle energie rinnovabili e non rinnovabili che causano la minor produzione di carbonio possibile per unità di energia prodotta. 

    E’ una sfida globale che possiamo vincere solo se ci impegneremo tutti insieme.

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