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    Umanesimo e transumanesimo

    Una diatriba interminabile, quella tra umanesimo e tecnologia, che muove da presupposti pregiudiziali e dalla discutibile contrapposizione teorica e pratica tra i due concetti: l’umanesimo, che si vuole ancorato al valore del valore; la tecnologia, che si vuole ancorata al valore del disvalore, a una visione del mondo strumentale, rispondente più ai mezzi che ai fini.

    di Gian Piero Jacobelli

    Da quando, circa quindici anni fa, Mario Perniola sulla scorta di Walter Benjamin scriveva Il Sex appeal dell’inorganico, ha avuto corso la idea che sostanzialmente la tecnologia venisse dopo la visione umanistica del mondo, prendendone il posto. 

    Non a caso digitando il termine “umanesimo” sul dispositivo di ricerca dell’archivio recente di “MIT Technology Review Italia”, la relazione dell’umanesimo con la tecnologia si declina spesso in una paradossale accezione a contrario: quella del cosiddetto “transumanesimo”, del desiderio di vivere oltre il proprio destino mortale.

    Da un lato si parla di “congelare il cervello”, di trasformare gli organi naturali in organi artificiali, di assumere sostanze in grado di rigenerare i tessuti. In merito ha scritto pochi mesi fa Antonio Regalado, uno dei più autorevoli redattori della edizione statunitense della rivista, che “in Florida, esiste una Church of Perpetual Life, la Chiesa della Vita Eterna, fondata da William Faloon e Saul Kent, imprenditori nel campo degli integratori alimentari. Il motto della chiesa è ‘Invecchiare e morire possono essere facoltativi’, mentre tra i santi patroni figura lo scrittore Arthur C. Clarke. Si definisce religione transumanista, i cui progetti sono, ovviamente, esentasse”. 

    In definitiva, l’umanesimo nell’ottica di tale avveniristico “corpo a oltranza” finisce per negare la stessa umanità, che si gioca tra la vita e la morte, nei contrastanti sentimenti suscitati da questa alternativa tipicamente “umanistica”.

    Nella stessa prospettiva “tecnologica”, si parla anche di “fare un backup della mente”, scansionando un cervello per ricrearne una simulazione digitale. Anche in questo caso, lo stesso Antonio Regalado parla di “immortalità in forma digitale”, “una delle tante teorie che ricadono sotto la definizione di transumanesimo”.

    A parte ogni possibile considerazione di carattere etico, in entrambi i casi il “transumanesimo” viene inteso come un “umanesimo oltre l’umanesimo”. Insomma, se l’umanesimo, nei suoi aspetti più critici, costituisce un sistema chiuso di valori, di procedure formative, di modelli comportamentali, il transumanesimo, nelle sue derive scientifiche e tecnologiche, non sarebbe da meno. 

    In effetti, l’obiettivo di ogni sistema di sapere che ambisca a trasformarsi in un sistema di potere, fosse anche il potere di non morire, resta, anche nelle prospettive più avanzate della tecnologia, quello di privilegiare prepotentemente la ripetizione su ogni istanza, per altro ineludibile, di differenza.

    Evidentemente, bisogna intendersi. Con umanesimo si può intendere un paradigma rigido, intenzionato a perpetuare alcuni principi di conoscenza “deduttivi” (si conosce a partire da indiscutibili assunzioni di valore), reificati in schemi di comportamento gerarchicamente gestiti da chi si pretende accreditato custode di quei principi. 

    In questo caso, emerge una radicale contrapposizione con il progresso tecnologico, che tende a mettere in crisi ogni resistenza pregiudiziale, per sostituire al principio di verità, secondo cui il vero è vero comunque e dovunque, un principio di falsità, secondo cui il falso è falso contestualmente, ma potrebbe diventare almeno provvisoriamente vero in un altro contesto.

    Ma si può anche intendere, con umanesimo, quanto ha a che vedere con una “umanità” incarnata in un sistema aperto e dinamico di relazioni interpersonali e in una “ambientale” identificazione con il mondo. 

    In questo caso, che trova nel progresso tecnologico le convincenti ragioni di un orientamento prettamente “ecologico”, il sapere potrebbe tornare a proporsi come uno strumento per risolvere i problemi e non per crearli: anteponendo la dimensione aperta e dinamica di quanto definiamo come “uomo” (ovviamente senza alcuna accezione di genere) a quella perentoria e tassativa di una ormai sclerotica tradizione umanistica.

    (gv)

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