La recente scomparsa dello storico Paolo Prodi conferisce alle sue ultime riflessioni sul rapporto tra spirito profetico e spirito utopistico una suggestiva incisività, che coinvolge sia il confronto tra istituzioni religiose e istituzioni politiche, sia le relazioni tra il sapere della scienza e il fare della tecnica.
di Gian Piero Jacobelli
Quando scompare uno studioso di vaglia e di riferimento come Paolo Prodi, avviene che, per quanti ne hanno seguito e apprezzato la parabola speculativa, i suoi ultimi scritti assumano un valore tanto testimoniale quanto testamentario. In questi termini, connessi a un presente in cerca del proprio futuro, si può rileggere il saggio che Paolo Prodi, studioso dei rapporti intercorrenti tra il potere laico e il potere religioso, ha pubblicato nei mesi scorsi, a doppia firma: la sua, con il titolo di «Profezia, utopia, democrazia», e quella di Massimo Cacciari, con il titolo di «Grandezza e tramonto dell’utopia».
La eclisse dello scarto profetico e/o utopistico – Occidente senza utopia s’intitola, appunto, il libro in questione, edito da il Mulino – costituisce il tema, anzi il problema, su cui entrambi gli autori riflettono: il problema di un calo di tensione dialettica che, se da un lato si manifesta come un allentamento del patto sociale e, quindi, come una sorta di degenerazione della convivenza, dall’altro lato assume l’andamento epocale di una crisi della civiltà: di quel progetto di sopravvivenza che, al di là delle sue qualificazioni valoriali, ogni civiltà presuppone e promuove.
Quello della Chiesa, e del connesso e variamente declinato potere ecclesiastico, rappresenta una vera e propria cartina di tornasole della capacità di ogni potere di inverarsi nella realtà sociale proprio nella misura in cui si dimostra in grado di contestarla, di rimuoverne l’apparente fatalità, di rinvigorirne di volta in volta lo spirito alternativo. La Chiesa, infatti, emerge nelle parole di Paolo Prodi, come una «profezia istituzionalizzata», la cui ossimorica articolazione implica fatalmente una contraddizione creativa, che si proietta nelle più avanzate realizzazioni della tecnologia digitale e della realtà virtuale: da un lato «un cristianesimo bastato sull’incarnazione della parola», dall’altro lato «una civiltà in cui è la carne a evaporare nella parola, nelle rivelazioni dei veggenti o nell’immagine digitale».
In questo incessante scambio di ruoli funzionali e progettuali si cela l’interrogativo di fondo con cui Paolo Prodi intitola il capitolo conclusivo del suo saggio: «Oggi». Nel profilo sussultorio della civiltà occidentale, la indagine storica sui rapporti tra Stato e Chiesa potrebbe aiutarci a capire cosa stia succedendo e cosa ci si possa attendere da quanto, oggi, appare spesso in un orizzonte apocalittico? La risposta di Paolo Prodi appare tanto sintomatica quanto indicativa: «Ora stiamo entrando in un’epoca nuova in cui i contenitori forniti dagli Stati e dalla Chiese territoriali sembrano non essere più in grado di contenere la società che li produce: non che scompaiano ma è evidente che nessuno dei due accampamenti è capace di sostenere la dialettica che ha permesso all’Occidente la conquista delle sue libertà».
Lo stesso rapporto Stato-Chiesa perde di significato nel logoramento degli ambiti territoriali in cui necessariamente si esprimeva: «I problemi nati con il multiculturalismo e i nuovi fondamentalismi suppongono la fuoriuscita non soltanto dall’alveo costituzionale degli ultimi secoli ma anche dalle radici del dualismo istituzionale Stato-Chiesa che questo alveo aveva prodotto a partire dal medioevo».
La conclusione, il “messaggio” che si ritrova in questo ultimo scritto di Paolo Prodi, concerne l’ipotesi che quanto sta avvenendo nella Chiesa, forse proprio per la sua maggiore possibilità di messa a fuoco, possa offrire qualche spunto di confronto e di previsione.
La progressiva deterritorializzazione dell’articolazione diocesana, lo sviluppo di movimenti religiosi autonomi e non “inquadrati”, il moltiplicarsi dei movimenti comunitari, lasciano intendere come tutto si stia “spostando”: «Non vi è più un rapporto centro-periferia secondo lo schema ereditato dall’impero romano come fondamento del primato del vescovo di Roma per garantire l’unità della Chiesa e sta nascendo qualcosa di nuovo, un nuovo rapporto tra profezia e istituzione».
Come abbiamo spesso osservato, la istanza etica, quella delle spontanee aggregazioni identitarie, sta prendendo il sopravvento sulla istanza morale, quella delle tradizionali e rassicuranti eteronomie. Con tutte le conseguenze del caso. Nella speranza che queste conseguenze non sopravvengano né a caso, né per irrimediabile necessità tecnologica, ma restino comunque umanamente “rimediabili”: in ordine sia ai bisogni individuali, sia a quelli collettivi.