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    Tra una intelligenza intenzionata e una intelligenza intenzionante

    Prosegue senza sosta il dibattito tra scienziati e filosofi in merito alla Intelligenza Artificiale, che sempre più spesso viene impropriamente chiamata a farsi carico di quelle logiche della convivenza che in realtà dovrebbero riguardare prioritariamente la “intelligenza naturale”, o meglio una “intelligenza culturale” consapevole della sua relatività nel tempo e nello spazio.

    di Gian Piero Jacobelli

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    Alla fine del precedente editoriale, dedicato ai giovani innovatori del 2021 e pubblicato nei giorni scorsi, abbiamo osservato come, anche nel nuovo corso “comunitario” della ricerca e della innovazione, la Intelligenza Artificiale stesse assumendo una dimensione pervasiva, dal momento che non c’è settore scientifico e tecnologico in cui se ne possa fare a meno.

    Per altro, in questa pervasività si cela non soltanto un innegabile guadagno strumentale, ma spesso anche una sorta di fideistica convinzione: che sia possibile migliorare le facoltà intellettuali di cui siamo dotati, trasferendole a una qualche macchina, artificiale dunque, ma potenzialmente persino più intelligente della stessa intelligenza umana. Questa convinzione, sorprendente quanto provocatoria, appare non soltanto assai discutibile sotto il profilo epistemologico, ma preoccupa, anche se in maniera altrettanto discutibile, da un punto di vista etico.

    A nostro avviso si tratta, infatti, di preoccupazioni riferibili più al disagio indotto, sul piano organizzativo e operativo, dalle attuali emergenze innovative e dalla conseguente, radicale trasformazione degli assetti produttivi e sociali, che da qualche componente disumana o postumana – per usare un termine tanto fortunato quanto concettualmente disagevole – implicita nella cosiddetta Intelligenza Artificiale. Cosiddetta, perché a conti fatti molti interrogativi sulla sua intrinseca intenzionalità si celano proprio nella scelta di una denominazione quanto meno ambigua, se non addirittura incongrua.

    Una conferma di questa incongruità emerge proprio ripercorrendo anche solo per accenni i presupposti logici e tecnologici della Intelligenza Artificiale nelle macchine di calcolo automatico che si sono succedute dal Seicento, il secolo della prima rivoluzione scientifica: Blaise Pascal nel 1642, Gottfried von Leibniz nel 1674, Charles Babbage nel 1834. Dove ai problemi del “contare” si sono progressivamente aggiunti i problemi dell’“ordinare”. E ordinateur i cugini francesi chiamano ancora oggi il moderno calcolatore o computer.

    Ma è nella prima metà del Novecento, con Alan Turing nel 1936 e con Claude Shannon nel 1937, che si registra nelle “macchine che pensano” una vera e propria conversione concettuale e metodologica. Non a caso, pochi anni dopo, nel 1943, Warren McCulloch e Walter Pitt, annunciarono la realizzazione del primo “neurone artificiale”, in cui appariva evidente come la Intelligenza Artificiale fosse molto “artificiale” e assai poco “intelligente”. Nasceva, infatti, all’insegna di un primordiale dispositivo che, sia pure inserito in sempre più complesse reti neurali, veniva semplicemente acceso o spento.

    Il termine “Intelligenza Artificiale” nasce però in una data successiva, nel 1956, a opera del matematico statunitense John McCarthy, nel corso di un seminario a cui parteciparono i più autorevoli ricercatori del tempo, da Marvin Minsky ad Allen Newell, da Claude Shannon e Herbert Simon. La proposta di McCarthy ebbe un tale successo da promuovere la nascita effettiva di una nuova disciplina e da orientare questa disciplina verso obiettivi a nostro avviso sostanzialmente ambigui, se non addirittura contraddittori.

    A parte i numerosi fallimenti in cui sono incorsi i ricercatori nella incessante simulazione di reti neurali, variamente concepite tra “modelli connessionisti” e “modelli simbolici”, ad assumere una portata critica è stata proprio l’aspirazione a perseguire la realizzazione di sistemi intelligenti in cui persiste il criterio di utilizzare come misura di efficacia l’affinità con il comportamento umano. Ovvero, anche peggio, con un ideale comportamento astrattamente razionale, che sottrae al comportamento umano tutte le sue connotazioni contestuali e le sue opportunità metamorfiche: vale a dire, di cambiare in ragione delle situazioni e delle intenzioni.

    In altre parole, la Intelligenza Artificiale, associando due termini programmaticamente in contrasto, finisce per sottrarre, quanto meno da un punto di vista filosofico, alla intelligenza le sue capacità creative, di interpretazione delle e di adeguamento alle circostanze, e all’artificiale le sue capacità di fornire soluzioni strumentali idonee ad assecondare stabilmente il perseguimento degli obiettivi umanamente predisposti. Tutto si gioca sulla distinzione tra una intelligenza “intenzionata”, che procede secondo percorsi prestabiliti, e una intelligenza “intenzionante”, in grado di perseguire consapevolmente i variabili  equilibri  tra gli esseri umani e tra gli esseri umani e il mondo.

    Al contrario, i procedimenti della Intelligenza Artificiale, ridotti ai loro minimi termini, si risolvono in una sorta di “arco riflesso”, come la contrazione che si registra quando il medico percuote il ginocchio con un apposito martelletto, provocando una reazione esclusivamente midollare, che non arriva alla corteccia cerebrale e che quindi non è né consapevole né tanto meno volontaria. Di archi riflessi, di comportamenti tanto inevitabili quanto inconsapevoli, è piena la nostra vita: ma sta proprio nella progressiva, anche se non integrale corticalizzazione di questi riflessi il valore aggiunto che la evoluzione ha conferito al cervello umano.

    In una prospettiva in cui i valori specificamente “strumentali” possano venire perseguiti a confronto con quelli generalmente “formativi”, lasciano perplessi i più recenti tentativi di formulare un qualche codice etico per la Intelligenza Artificiale. Tentativi che, nel costante riferimento a “diritti” tanto contingenti quanto contrastanti, in realtà spostano il problema delle responsabilità individuali e collettive dall’uomo alle macchine o ai sistemi presuntivamente intelligenti. 

    Con il duplice rischio di cristallizzarne i principi nelle forme ideologicamente e surrettiziamente prescritte dalla tradizione dei più forti, ovvero di creare ulteriori e preoccupanti diaframmi tra il dire e il fare.

    (gv)

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