Esiste qualche convincente indizio che la calamità naturale che nel marzo scorso ha colpito l’Abruzzo possa avere segnato un punto di svolta nel modo di fare giornalismo, rimettendo in movimento la cultura dell’inchiesta che negli ultimi decenni ha manifestato segni di declino.
di Mario Morcellini
Le emergenze, per definizione, stressano le routine e le consuetudini più consolidate della comunicazione e le sottopongono a una radicale verifica. Catastrofi naturali, disastri tecnologici e azioni terroristiche ci impongono di ragionare sulla tenuta delle teorie, delle categorie concettuali e degli strumenti empirici che, nei momenti di “normalità” ci consentono di descrivere e spiegare i comportamenti dei media e del pubblico e le funzionalità attribuite ai diversi canali comunicativi.
La possibilità di comunicare e di scambiare informazioni costituisce una fondamentale risorsa per gestire le crisi e facilitare il ritorno alla normalità. Tuttavia, sarebbe riduttivo pensare che la comunicazione d’emergenza esaurisca la sua lezione limitandosi a prescrivere ricette per garantire la tenuta dei canali comunicativi. C’è evidentemente qualcosa di molto più importante, e riguarda l’infinita capacità della comunicazione di ordire la trama delle relazioni umane, di farsi tramite per il riconoscimento reciproco, di organizzare la risposta collettiva.
Il danno provocato da una catastrofe non è semplicemente di natura materiale. Non ha a che fare soltanto la morte, le ferite fisiche e i beni irrimediabilmente perduti. è, soprattutto, un danno all’integrità spirituale di una comunità. L’onda sismica non è solo un fenomeno geofisico, ma una minaccia di distruzione che continuerà a lungo a incombere sulla casa, luogo e simbolo degli affetti privati, sui paesi, le città, le chiese e i monumenti. Compromette la corrispondenza tra luoghi fisici e spirituali, che rappresentano il teatro delle relazioni sociali. Il terremoto spezza questi legami, spinge un’intera popolazione alla diaspora negli alberghi della costa, tende a forzare l’identità degli individui e i legami familiari e di amicizia entro una socialità “innaturale” come quella delle tendopoli o di residence impersonali ed estranei, ma soprattutto, finisce per dissolvere o danneggiare quella fitta di rete di fili invisibili che tengono insieme la comunità. Si tratta, per l’appunto, di una rescissione coatta dei legami che legano tra loro le persone, i gruppi sociali e quelle cerchie di connessione che ancorano le comunità a un territorio più vasto. è una situazione di disagio che non accende soltanto le speranze ma anche i conflitti, e la comunicazione è chiamata almeno a raccontarla, a darne testimonianza.
Ed è forse in questo che individuiamo il principale motivo per cui, anche in un contesto così difficile, è indispensabile studiare la comunicazione: è la base di ogni relazione sociale, e lavora incessantemente a riunire quello che la catastrofe tende a separare. C’è anche il dovere di una presa d’atto, che interroga gli studiosi sulla validità di formule come la “crisi dei valori” che, per quanto popolare e sbandierata, proprio in occasioni come queste evidenzia i suoi limiti e la sua valenza sovente retorica. La generosità con cui è avvenuta la mobilitazione dei volontari e della solidarietà rende evidente che la società talvolta è di gran lunga migliore di come essa viene raccontata. E ancora una volta è la comunicazione a costituire il presupposto per andare oltre l’individualismo, configurandosi come primaria forza organizzatrice da cui si generano aiuto, solidarietà e partecipazione.
Studiare la comunicazione in una situazione come quella di un terremoto significa quindi prendersi la responsabilità di allargare lo sguardo, avere il coraggio di assumerla come luogo della complessità e del conflitto, e di guardare alla molteplicità di processi sociali che avvengono entro un insieme estremamente differenziato di “circuiti comunicativi”, entro i quali l’interazione interpersonale e il racconto della cronaca appaiono come solo alcune tra le dimensioni che concorrono a definire i processi di elaborazione simbolica. Questi “gironi” della comunicazione appaiono estremamente diversificati, spesso complementari tra loro, e mai completamente riducibili o sovrapponibili ai discorsi dei media generalisti piuttosto che al nuovismo delle tecnologie, ovvero gli ambiti comunicativi che in tempi di routine tendono a concentrare l’attenzione degli studiosi.
è, infatti, nei momenti d’emergenza che la prospettiva del ricercatore deve necessariamente spogliarsi dai pregiudizi e dagli eccessi di sicurezza, ampliando la sua capacità di visione alla comunicazione interpersonale, alle radio locali e a quelle di nicchia, all’attivismo comunicativo che corre sui link dei blog e dei siti di social networking. A metterli sullo stesso piano è l’attivismo comunicativo, che al di là dai risultati concreti, sottende in larga parte a una comune volontà di ricostruire, a partire dal ripristino di questi legami tra gli individui e con la più vasta comunità di cui fanno parte.
L’attenzione sulla Rete appare come un punto qualificante, su cui si addensano molte promesse e curiosità. Dalle prime rilevazioni di scenario emerge che proprio dalla Rete provengono alcune sollecitazioni culturali meritevoli di un approfondimento. Il “popolo della Rete” continua a essere per molti versi elitario, ma grazie alla accresciuta accessibilità di tecnologie e banda, oggi è molto più ampio e “democratico” che in passato. E nel rapporto con le tecnologie si posiziona sostanzialmente a metà strada tra gli stili e le soggettività della comunicazione interpersonale, di cui molti ambienti comunicativi sembrano rappresentare una variante, e i modelli comunicativi che hanno a lungo caratterizzato i media mainstream e la loro capacità egemonizzante. Gli internauti sono diventati oggi osservatori critici, più che mai autonomi dalle logiche del generalismo, e più pronti a dare voce e corpo a una vertenza nei confronti di quest’ultimo, centrata sulla domanda di maggiore qualità. Youtube, i blog, Facebook diventano oggi il palcoscenico di un’inedita e aspra vertenza nei confronti di un giornalismo che indugia compiaciuto su dati Auditel e orsacchiotti di pezza raccolti tra le macerie, e che chiede anzitutto più rispetto e sobrietà di fronte al dolore. Vale a dire più etica e professionalità.
Ma la Rete è anche il luogo in cui possono circolare le storie che i media generalisti non sempre raccontano, e che rischierebbero di sovrapporsi in maniera imprevedibile e persino indesiderato alla trama dei loro discorsi. è attraverso la Rete, per esempio, che le popolazioni colpite iniziano a esprimere autonomamente una soggettività e una vocalità politica, a intervenire sui provvedimenti del governo e sulle responsabilità delle istituzioni, a organizzare la propria visibilità in mancanza di adeguati spazi di rappresentazione.
Non si tratta dell’unico elemento nella vicenda del terremoto che interpella gli studiosi di comunicazione. I media generalisti hanno mostrato una capacità di mobilitazione che, almeno nelle prime ore, quelle più critiche, non è apparsa del tutto convincente. Per quanto l’evento sia avvenuto in piena notte, c’è indubbiamente stato qualche elemento d’inerzia organizzativa se le principali agenzie, il televideo e la televisione generalista hanno impiegato quasi un’ora e mezzo soltanto per capire che la scossa, chiaramente avvertita dai romani, era il segno di una più ampia catastrofe verificatasi in Abruzzo. La ricostruzione delle prime drammatiche ore ci mette a conoscenza che il primo medium che è riuscito di allestire un flusso di notizie da e sui luoghi colpiti dal terremoto è stato un giornale on line abruzzese, “Prima da Noi”, che ha iniziato a diffondere notizie a pochi minuti dal sisma, in una situazione di assoluta precarietà tecnologica e organizzativa.
Si tratta, peraltro solo di alcune delle scoperte e degli “imprevisti” che tutte le emergenze comunicative sembrano riservarci. Una delle sorprese più importanti della notte del 6 aprile è la riscoperta della radio, medium che ancora una volta è riuscito a interpretare al meglio la sua funzione di punto di riferimento per la comunità durante un’emergenza. E lo ha fatto attraverso le antenne di Radio Rock, un’emittente romana “di nicchia”, con il suo pubblico e uno stile lontanissimo dal generalismo a diventare, dai primi minuti successivi alla scossa, il servizio pubblico, aprendo la diretta a un crescente numero di ascoltatori, peraltro con caratteristiche molto diverse da quelle della sua audience abituale, fino a diventare un riferimento obbligato, un ineludibile crocevia di notizie, testimonianze e concrete manifestazioni di solidarietà, che almeno in parte ha sopperito alle carenze del sistema “ufficiale” dei media nelle prime ore dell’emergenza.
è utile ricordare che non ci sono soltanto critiche o sorprese: in tutte le crisi c’è sempre un elemento di rinnovamento virtuoso, che sfida aziende e professionisti, impegnandoli a dare un significato più concreto a concetti astratti come “qualità dell’informazione” e “servizio pubblico”. I segnali delle ultime settimane forniscono qualche convincente indizio che il terremoto può segnare un punto di svolta nel modo di fare giornalismo, rimettendo in movimento la cultura dell’inchiesta, che negli ultimi decenni aveva manifestato evidenti segni di declino.
è un piccolo ma importante segno, se si pensa a quanto siano stati forti i rischi di sovrapposizione tra informazione e gossip, approfondimento giornalistico e TV del dolore, tra bisogno di dare un senso al concetto di bene comune e climi culturali di ripiegamento. Questa rinnovata sensibilità per l’inchiesta emerge come fatto di rilevanza politica, e si manifesta come un rinnovato sguardo critico nei confronti delle passate classi dirigenti e dell’etica degli affari, in un’epoca di boom delle costruzioni e di furbetti dell’edilizia.
è l’indizio convincente che la cultura dell’inchiesta non era smarrita, ma seriamente messa a rischio da un giornalismo trionfalistico ed edulcorato, del tutto inadeguato nei momenti di crisi e di ansia collettiva.
Ma la storia recente insegna che c’è un momento in cui il racconto giornalistico dei disastri entra in crisi: quando l’attenzione cala, si spengono i riflettori e l’ansia di ricostruire non conquista più le prime pagine. Dobbiamo lavorare perché questo limite, umanamente e professionalmente comprensibile, sia elaborato per tempo in modo di non trovarci impreparati a raccontare il difficile ritorno alla normalità. Solo così l’informazione potrà dare una prova pienamente convincente.
è proprio per questi motivi che la Facoltà di Scienze della Comunicazione ha deciso di avviare un gruppo di ricerca sulla comunicazione d’emergenza e sulla copertura giornalistica dell’evento, allo scopo di raccogliere ed elaborare dati sulle prestazioni complessive del sistema dei media e sulle funzioni associate ai diversi canali comunicativi, puntando in particolare a indagare il ruolo della comunicazione interpersonale e il rilevante contributo della Rete come spazio di dibattito e come infrastruttura per la mobilitazione della “società civile”.