di Gian Piero Jacobelli
Di sicurezza si parla ormai sempre e ovunque, incluse le promozioni commerciali e le campagne elettorali. Dovunque, in altre parole, si voglia o si debba offrire alla gente qualcosa presuntivamente in grado di soddisfare non soltanto i loro bisogni materiali, ma anche quelli spirituali. Segno inequivocabile che la gente si sente oggi particolarmente insicura e che, per attenuare o rimuovere questo persistente disagio, sarebbe disposta a qualsiasi compromesso, anche a scapito della propria libertà di scelta. Sia per quanto concerne le illusioni della mente, in merito a cui basta considerare gli accenti palingenetici, per altro del tutto privi di originalità e concretezza, che caratterizzano la massima parte dei messaggi provenienti dalle tradizionali forze politiche, in una sconcertante cacofonia di frasi fatte e di voli pindarici. Sia per quanto concerne le illusioni del corpo, tra le promesse spettacolari di pozioni magiche degne di un Dulcamara e il paradossale rifiuto, purtroppo più diffuso di quanto si creda, dei necessari presidi sanitari, in particolare di quelli vaccinali.
Non è casuale, ovviamente, questo accenno alla talvolta disordinata rincorsa terapeutica, se si pensa a come l’assillo pandemico abbia reso precarie le difese psicologiche nei confronti del male, fisico e morale, e soprattutto della morte. La minaccia di uno stato pandemico permanente finirà per supportare negli anni a venire quella cultura del sospetto che tende ad alterare pesantemente le relazioni interpersonali, coinvolgendo anche quelli che una volta erano i protagonisti acclamati del progresso tecnologico. In particolare i suoi protagonisti, i ricercatori, e i luoghi in cui si stanno mettendo a punto i più significativi presidi della innovazione tecnologica: dai laboratori – si vedano in proposito le rinnovate polemiche sulla origine del Covid nelle strutture della ricerca biomedicale di Wuhan – ai centri della elaborazione informatica, che tanto sembrano promettere quanto sembrano minacciare.
Si tratta di un sentimento socialmente disgregante, sostanzialmente diverso dal settecentesco luddismo, in cui si veicolava la protesta della classe operaia nei confronti delle tecnologie che, allo scopo dichiarato di facilitarlo, finivano di fatto per rimuovere il lavoro umano. Diverso anche da quella “paura della bomba” che caratterizzò gli anni Cinquanta grazie a giornalisti e filosofi come Robert Jungk in Gli apprendisti stregoni e Günter Anders in L’uomo è antiquato, inclini a denunciare il pernicioso scoperchiamento del vaso di Pandora della tecnologia, da cui stavano sfuggendo forze ancora sconosciute e apparentemente fuori controllo.
La paura di cui si parla e su cui si riflette oggi appare diversamente motivata e rappresentata: non più come un guerra tra interessi contrastanti, come nel caso del luddismo, né come la imperiosa, ma troppo spesso irresponsabile preponderanza degli “addetti ai lavori”, sia nel campo della scienza sia in quello della comunicazione scientifica. Torna invece di attualità l’antico paradigma narrativo di “guardie e ladri”, vale a dire della componente concorrenziale e conflittuale implicita in ogni innovazione tecnologicamente rilevante.
In proposito basta ripercorrere, come facciamo redazionalmente ogni settimana, la nostra Home Page, da cui sempre più di frequente emerge una significativa contraddizione di fondo: se qualcuno fa qualcosa per accrescere le nostre possibilità operative, qualcun altro farà qualcosa per ridurle, o quanto meno per vincolarle, approfittando delle stesse strumentazioni che stanno cambiando le correnti procedure di pensiero e di azione.
Per esempio: la Intelligenza Artificiale, con la sua ancora misconosciuta pervasività e con le sue preclusioni algoritmiche; le alterazioni climatiche provocate dalle stesse attività produttive che sostengono il tenore di vita, fortunatamente crescente anche se spesso iniquamente distribuito; la ricerca biomedicale che da un lato si sforza di rimuovere i vecchi rischi della salute, mentre dall’altro lato ne individua sempre di nuovi; le funzioni della mobilità, che offrono imprevedibili opportunità di relazione, ma accrescono allo stesso tempo la precarietà dei diversi sistemi infrastrutturali; la Rete, dove si moltiplicano le insidie dei malintenzionati nei confronti della privacy, sia individuale sia collettiva, rendendo sempre più difficile promuovere e difendere la identità personale e culturale.
Si potrebbe continuare con questo elenco delle strutturali e funzionali ambiguità tecnologiche, a dimostrazione di quante siano le contraddizioni di quella che una volta veniva definita modernità e che ora si tende a definire postmodernità per dire che qualcosa è radicalmente cambiato, ma ancora non si sa bene cosa.
In questo senso anche la diffusa e incalzante dialettica tra sicurezza e insicurezza, che trova molteplici riscontri della nostra rivista, può costituire un fattore di riflessione e di consapevolezza di quanto le questioni tecnologiche si articolino con quelle culturali e di come, se le prime possono mettere in questione le seconde, anche le seconde possano mettere in questione le prime. Facendo maturare pratiche e prospettive concettuali idonee ad affrontare gli attuali, complessi scenari concettuali e operativi, per sottrarli a quel senso di ineluttabilità che spesso tende a emergere tanto dalle narrazioni più pessimistiche quanto da quelle più ottimistiche.
In definitiva, la istanza della sicurezza non deve trasformarsi in un vincolo che distolga dal tentare l’ignoto, magari anche correndo qualche rischio, ovvero in un imperativo categorico che impedisca di pensarla diversamente, ipotizzando gerarchizzazioni alternative dei bisogni e degli strumenti per soddisfarli. Piuttosto deve contribuire a ridurre, contrariamente a quanto si cercava di fare una volta, il certo nel probabile e il probabile nel possibile. Se non altro, perché nel possibile si può ancora opportunamente distinguere e responsabilmente scegliere.
(gv)