E’ risaputo che le piante usano la fotosintesi per produrre sostanze organiche, ma pochi di noi sanno spiegare cosa sia esattamente la fotosintesi, figuriamoci provare che la fotosintesi si verifichi realmente.
di Matthew Hutson
Spesso sopravvalutiamo la nostra capacità di spiegare cose che pensiamo di sapere. Proviamo, per esempio, a chiedere a qualcuno di disegnare una bicicletta. I risultati non sempre assomigliano alla realtà. A luglio, Joseph Giaime, un professore di fisica alla Louisiana State University e al Caltech, mi ha illustrato uno degli esperimenti scientifici più complessi al mondo. Lo ha fatto tramite Zoom sul suo iPad.
Mi ha mostrato una sala di controllo di LIGO, una collaborazione di fisici finalizzata al rilevamento delle onde gravitazionali, con sede in Louisiana e nello stato di Washington. Nel 2015, LIGO è stato il primo osservatorio a rilevare direttamente le onde gravitazionali, create dalla collisione di due buchi neri a 1,3 miliardi di anni luce di distanza.
Circa 30 monitor di grandi dimensioni mostravano vari aspetti dello stato di LIGO. Il sistema monitora decine di migliaia di canali dati in tempo reale. Gli schermi video mostravano la dispersione della luce e i grafici dei dati segnalavano le vibrazioni degli strumenti dovute all’attività sismica e al movimento umano.
Ero interessato a questo progetto, su cui lavorano insieme centinaia di specialisti di diversi campi scientifici, per cercare di rispondere a una domanda apparentemente semplice: cosa significa veramente sapere qualcosa? Quanto bene possiamo comprendere il mondo quando gran parte della nostra conoscenza si basa su prove e argomentazioni fornite da altri?
La domanda non è importante solo per gli scienziati. Molti altri campi stanno diventando più complessi e abbiamo accesso a molte più informazioni che mai. Tuttavia, allo stesso tempo, la crescente polarizzazione politica e la disinformazione rendono difficile sapere di chi o di cosa fidarsi. I progressi della medicina, il discorso politico, la pratica manageriale e buona parte della vita quotidiana dipendono dal modo in cui valutiamo la conoscenza e ne facciamo uso.
La capacità dell’individuo di accumulare conoscenza viene sovrastimata e il ruolo della società nel produrla sottovalutato. Possiamo sapere che il gasolio danneggia i motori a gas e che le piante producono sostanze organiche con la fotosintesi, ma abbiamo problemi a spiegare cosa sono il diesel o la fotosintesi, figuriamoci provare che la fotosintesi si verifica realmente. La conoscenza, come ho capito durante la ricerca per scrivere questo articolo, dipende tanto dalla fiducia e dalle relazioni quanto dai libri di testo e dalle osservazioni.
Trentacinque anni fa, il filosofo John Hardwig pubblicò un saggio breve su quella che chiamava “dipendenza epistemica”, vale a dire la nostra dipendenza dalla conoscenza degli altri. Il documento – diffuso in alcuni circoli accademici, ma in gran parte sconosciuto altrove – acquista rilevanza solo quando la società e la conoscenza diventano più complesse.
Una definizione comune di conoscenza è “credenza vera giustificata”, vale a dire fatti che si possono supportare con dati e logica. Come individui, tuttavia, raramente abbiamo il tempo o le capacità per giustificare le nostre convinzion. Quindi cosa intendiamo veramente quando diciamo di sapere qualcosa? Hardwig ha posto un dilemma: o gran parte della nostra conoscenza può essere detenuta solo da una struttura collettiva, non da un individuo, oppure gli individui possono “sapere” cose che non comprendono veramente (Ha scelto la seconda opzione).
Potrebbe sembrare una questione filosofica astratta. Alla fine della giornata, qualunque cosa significhi “conoscere”, è chiaro che per questo ci affidiamo ad altre persone. “Se la domanda fondamentale è chi possiede la conoscenza, il problema mi lascia indifferente”, afferma Steven Sloman, scienziato cognitivo alla Brown University e coautore di The Knowledge Illusion.
“Ma”, prosegue, “se le domande sono ‘come giustifichiamo l’affermazione di sapere le cose?’ e ‘di chi dovremmo fidarci?’”, allora la questione è dirimente. La ritrattazione, a giugno, di due articoli sul covid-19 apparsi su “Lancet” e sul “New England Journal of Medicine”, dopo che i ricercatori avevano riposto un’eccessiva fiducia in un collaboratore disonesto, è un esempio di ciò che accade quando la dipendenza epistemica viene gestita male. E l’aumento della disinformazione su questioni come i vaccini, il cambiamento climatico e il covid-19 è un attacco diretto alla dipendenza epistemica, senza la quale né la scienza né la società nel suo insieme possono funzionare.
Il caso di LIGO
Per comprendere meglio la dipendenza epistemica, ho esaminato la storia di LIGO. Volevo capire come i fisici che lavorano lì “sanno” che quei due buchi neri si sono scontrati a diverse galassie di distanza, e cosa significa per quello che pensiamo di sapere. Come racconta Giaime, LIGO è collegato agli studi di Albert Einstein. Un secolo fa, lo scienziato teorizzò che la gravità fosse una deformazione del continuum spaziotemporale e sostenne che le masse in movimento emettono onde alla velocità della luce. Ma le speranze di rilevare tali onde sono rimaste deboli per decenni, perché troppo piccole per essere misurate.
LIGO utilizza l’interferometria laser, basata su un progetto che Rainer Weiss, un fisico del MIT, pubblicò nel 1972. Un interferometro, visto dall’alto, assomiglia a una L maiuscola, con due bracci ad angolo retto. Un laser iniettato al gomito della L è diviso in due, si riflette su uno specchio all’estremità di ciascun braccio e si ricombina in modo tale che i picchi e le valli delle onde luminose si annullino a vicenda.
Weiss sapeva che il passaggio di un’onda gravitazionale avrebbe allungato lo spazio nella direzione di un braccio mentre lo contraeva nella direzione dell’altro. Di conseguenza, le distanze percorse dai raggi laser subiscono un cambiamento e le onde non si annullano a vicenda. Il rilevatore di luce vedrebbe quindi un chiaro schema d’onda. Dopo decenni di costruzione e oltre un miliardo di dollari, questo è ciò che LIGO, il Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory, ha rilevato ufficialmente quasi una dozzina di volte dal 2015.
La sensibilità dello strumento è difficile da capire. Ogni braccio è lungo quattro chilometri. Su questa distanza, LIGO è in grado di rilevare cambiamenti anche di un decimillesimo del diametro di un protone. “Più fisica e ingegneria si conosce”, mi ha detto Giaime, “più suona folle”. Le differenze sono più piccole del movimento casuale, quindi vengono utilizzati numerosi trucchi per ridurre il rumore.
La luce viaggia lungo il tunnel attraverso il vuoto. Il laser è potente, quindi il raggio contiene molti fotoni, consentendo loro di mediare qualsiasi rumore. Gli specchi pendono da fili di vetro per smorzare passivamente le vibrazioni. E ogni sospensione dello specchio è montata su un impianto che attenua attivamente le vibrazioni utilizzando il feedback dei sismometri e dei sensori di movimento, come stravaganti cuffie che assorbono il rumore. Il sistema tiene conto anche dell’interferenza misurata dai campi magnetici, dalle condizioni meteorologiche, dalla rete elettrica e persino dai raggi cosmici.
Tuttavia, con un solo rilevatore, si può essere abbastanza sicuri che un qualsiasi segnale provenga dallo spazio, ma se due rilevatori ricevono lo stesso segnale quasi contemporaneamente, la fiducia aumenta in modo esponenziale. E’ possibile anche iniziare a localizzare la fonte nel cielo. Ecco perché ci sono due stazioni LIGO, in Louisiana e a Washington, così come altri osservatori di onde gravitazionali: Virgo, in Italia, GEO600, in Germania, e un altro in costruzione in Giappone.
Come è facilmente intuibile, LIGO richiede un team composto di specialisti di vari settori. La divisione del lavoro nella scienza, come nell’industria, è diventata sempre più specifica. Un libro del 1786 sulla fisica sperimentale copriva astronomia, geologia, zoologia, medicina e botanica. Oggi ogni campo di studio ha germogliato sottocampi e la competenza enciclopedica è diventata insostenibile.
Realizzare qualsiasi cosa al di fuori di un campo ristretto richiede agli scienziati di condividere le competenze. Le collaborazioni sono cresciute poiché nuove tecnologie come Internet hanno reso più facile la comunicazione. Dal 1990 al 2010, il numero medio di coautori di un articolo scientifico è passato da 3,2 a 5,6. Un documento del 2015 sulla massa del bosone di Higgs vantava più di 5.000 autori. Anche gli autori solitari non lavorano da soli. Spesso, secondo Sloman, citano il lavoro di altri che non hanno nemmeno letto, confidando che l’abstract sia in realtà un riassunto fedele di ciò che c’è nello studio”.
Il documento che annuncia il primo rilevamento di onde gravitazionali da parte di LIGO, pubblicato nel 2016, ha avuto più di 1.000 autori. Tutti hanno compreso appieno ogni aspetto di ciò che hanno scritto? “Penso di sì per la maggior parte di loro”, ha detto David Reitze, un fisico del Caltech e direttore esecutivo di LIGO, a proposito delle scoperte del team. Ma la questione è: “Come si fa a sapere che questo rilevatore complesso che ha centinaia di migliaia di componenti elettronici e canali di dati si sta comportando correttamente e sta effettivamente misurando ciò che si pensa stia misurando?. Team di centinaia di persone si preoccupano di rispondere a questa domanda”.
Ho chiesto a Reitze se avrebbe avuto problemi a spiegare qualche aspetto del documento del 2016. “Ci sono certamente parti di quel lavoro delle quali non ho una conoscenza dettagliata, come nel caso dei calcoli del team che confronta i dati a sua disposizione con previsioni teoriche e definisce accuratamente le masse e le velocità dei buchi neri.
Giaime, il responsabile dell’operazione Livingston, ipotizza che meno della metà dei coautori del documento abbia mai messo piede in uno dei siti dell’osservatorio, perché il loro ruolo non lo richiedeva. Per giustificare i risultati dell’osservatorio, ha osservato, una persona dovrebbe comprendere aspetti di fisica, astronomia, elettronica e ingegneria meccanica. “C’è qualcuno che sa tutte queste cose?” si è chiesto.
Un episodio in particolare sottolinea l’interdipendenza della squadra. LIGO non ha rilevato onde gravitazionali nei primi otto anni di attività e dal 2010 al 2015 è stato chiuso per aggiornamenti. Solo due giorni dopo essere stato riavviato, ha ricevuto un segnale che era “così chiaro che doveva essere un dono del cielo o qualcosa di sospetto”, afferma Peter Saulson, fisico della Syracuse University, che ha guidato la LIGO Scientific Collaboration, il team internazionale di scienziati che hanno usato LIGO e GEO600 per la ricerca, dal 2003 al 2007.
il rischio è di sopravvalutare le nostre capacità
Qualcuno potrebbe aver inviato un segnale falso? Dopo un’indagine, si è concluso che nessuno conosceva l’intero sistema abbastanza bene da capirlo. Quindi, tutti hanno concordato che il segnale doveva essere reale: due buchi neri in collisione. Spesso sopravvalutiamo la nostra capacità di spiegare le cose. Si chiama illusione della profondità esplicativa. In una serie di studi, le persone hanno valutato la loro comprensione di oggetti e fenomeni naturali, come le cerniere e gli arcobaleni. Poi hanno cercato di spiegarli. Le valutazioni sono calate precipitosamente una volta che le persone si sono rese conto della propria ignoranza. (Per una semplice dimostrazione, si può chiedere a qualcuno di disegnare una bicicletta. I risultati spesso non assomigliano alla realtà).
Ho chiesto a Reitze se lui stesso fosse caduto preda dell’illusione. “E’ risaputo che LIGO si basa su migliaia di sensori e centinaia di circuiti di feedback interagenti per tenere conto del rumore ambientale. Pensavo di capirli abbastanza bene, finché non mi sono trovato a spiegarli durante una riunione. In effetti, ho avuto qualche difficoltà”, ha risposto.
L’illusione può attingere a ciò che Sloman, lo scienziato cognitivo, chiama “comprensione contagiosa”. In alcuni studi che ha condotto, alle persone è stato fatto leggere di un fenomeno naturale inventato, come le rocce incandescenti. A una parte di loro è stato detto che il fenomeno era ben compreso dagli esperti, ad altri che era misterioso e ad altri ancora che era stato compreso, ma non reso di dominio pubblico. Quindi gli è stato chiesto di valutare il proprio livello di comprensione. Quelli del primo gruppo si sono attribuiti voti più alti degli altri, come se solo il fatto che fosse stato possibile per loro capire significasse che avevano già compreso.
Considerare la conoscenza degli altri come se fosse la propria non è così sciocco come sembra. Nel 1987, lo psicologo Daniel Wegner scrisse di un aspetto della cognizione collettiva che chiamava memoria transattiva, che in pratica significa che tutti sappiamo delle cose e sappiamo anche che tipo di conoscenze hanno gli altri. In uno studiio, coppie di soggetti avevano il compito di ricordare una serie di fatti, come “Il Kaypro II è un personal computer”. Si è scoperto che le persone non si soffermavano su un argomento quando credevano che il loro partner non fosse un esperto in materia. Senza parlare tra loro, si sono divisi i compiti, agendo ciascuno come la memoria esterna dell’altro.
Altri ricercatori che studiano la memoria transattiva hanno chiesto a piccoli gruppi di tre persone di assemblare una radio. Alcuni trii si erano organizzati come una squadra per completare l’attività, mentre altri si muovevano individualmente. Quelli che agivano come un team hanno dimostrato una migliore memoria transattiva, inclusa maggiore specializzazione, coordinamento e fiducia. A loro volta, hanno commesso meno della metà degli errori durante l’assemblaggio. Come gruppo – il normale modo di operare degli umani – la loro dipendenza epistemica ha prodotto il successo.
Molte lezioni conseguono dal vedere la propria conoscenza come dipendente da quella degli altri. Forse la più semplice è rendersi conto che quasi certamente capiamo meno di qualsiasi argomento di quanto pensiamo. Quindi è giusto fare più domande, anche se stupide. Riconoscere la nostra dipendenza epistemica potrebbe persino rendere il dibattito più produttivo. In un articolo del 2013, Sloman ha studiato il ruolo che l’illusione della profondità esplicativa gioca nella polarizzazione politica.
Gli americani hanno valutato la loro comprensione e il loro sostegno alle politiche relative all’assistenza sanitaria, alla tassazione e ad altre questioni urgenti. Poi hanno cercato di spiegare le politiche. Più l’esercizio riduceva il loro senso di comprensione, meno estrema diventava la loro posizione. Non si può prendere una posizione ferma su un terreno instabile. Nessuno capisce l’Obamacare, ha detto Sloman, nemmeno Obama: “È troppo lungo. È troppo complicato. Lo riassumono solo con un paio di slogan che ne spiegano l’1 per cento”.
Un’altra lezione viene dal documento originale di Hardwig sulla dipendenza epistemica. L’idea apparentemente ovvia che la razionalità significhi ragionare da soli con la propria testa è “un ideale romantico completamente irrealistico”. Secondo il documento, se avessimo seguito questo ideale avremmo solo convinzioni relativamente rozze e disinformate frutto del nostro lavoro solitario. Invece di pensare da soli, ha suggerito, sarebbe meglio fidarsi degli esperti, anche più di quanto già si fa.
Ho chiesto a Sloman se fosse una buona idea. “Si!” Egli ha detto. “Florida. Devo dire qualcos’altro?” (I casi covid-19 della Florida stavano salendo alle stelle in quel momento poiché le persone ignoravano i consigli degli esperti sulle misure protettive). In realtà, ovviamente, la razionalità richiede un equilibrio tra ricevere consigli e pensare in autonomia. Per testare la veridicità di un fatto, è necessario controllare se gli esperti sono d’accordo.
Gabriela González, un fisico dello Stato della Louisiana ed ex responsabile della LIGO Scientific Collaboration, ha affermato che come diabetico, “non proverei mai a ottenere i dati di una sperimentazione clinica e ad analizzarli da solo”. Si va alla ricerca del consenso medico nelle notizie su potenziali terapie.
Si può anche chiedere a un esperto indipendente di esaminare le affermazioni di un altro esperto. Nella scienza, questo è il processo di revisione tra pari. All’interno di LIGO, i comitati esaminano ogni fase di un esperimento. Potrebbero chiedere ad esperti indipendenti di scavare nel codice che altri hanno scritto o semplicemente porre domande approfondite. I ricercatori che analizzano i dati combinati utilizzano più algoritmi in parallelo, ciascuno scritto da persone diverse. Inoltre eseguono frequenti test dell’hardware e del software.
Un altro sistema, che usiamo istintivamente nella vita di tutti i giorni, è vedere come le persone rispondono alle domande sulla loro esperienza. “Superiorità dialettica” è un indizio che Alvin Goldman, un filosofo della Rutgers University, ha suggerito di utilizzare in un documento del 2001 intitolato Esperti: di quali dovresti fidarti? Nell’articolo apparso su JSTOR si sostiene che in un dibattito tra due esperti, quello che mostra “rapidità e fluidità comparative” ed è in grado di confutare le dichiarazioni di altri, potrebbe essere considerato quello che ha una conoscenza approfondita della questione. Tuttavia, potrebbe non essere così. Avere tutte le risposte a volte è un brutto segno. Sloman è dell’idea che bisognerebbe chiedersi: sono abbastanza umili? Ammettono ciò che non sanno?”
La conoscenza è legata alle prove e alla fiducia
L’articolo di Goldman offre altri quattro indizi sull’affidabilità dell’opinione di un esperto. Sono l’approvazione di altri esperti, le credenziali o la reputazione, le prove su possibili pregiudizi o conflitto di interessi e la comprovata esperienza. Anche se sembrano valutazioni ad hominem piuttosto che basate su prove, dice Sloman, non è un segno negativo: “Mi sembra molto più facile valutare la credibilità di qualcuno che rendersi conto di tutta la conoscenza che quell’individuo possiede. Sono ordini di grandezza più abbordabili. “Per quanto riguarda le credenziali formali, ha detto: “Mi si potrebbe definire un elitario, ma penso che avere una laurea in un’istituzione rispettabile sia un elemento di grande valore”.
In definitiva, la conoscenza riguarda sia le prove che la fiducia. Harry Collins, un sociologo dell’Università di Cardiff che scrive da decenni sulla comunità delle onde gravitazionali, sottolinea come le interazioni faccia a faccia modellano ciò che crediamo sia vero. Ricorda uno scienziato russo che aveva visitato Glasgow per lavorare con un team che non riusciva a riprodurre i suoi risultati. Anche se non ci sono riusciti durante la sua visita, non hanno più dubitato di lui, a causa del suo comportamento in laboratorio”.
Per esempio, non usciva mai a pranzo”, ha detto Collins. “Ha sempre preferito mangiare un panino, mentre avrebbe potuto gustare il delizioso curry di Glasgow.”Hanno pensato che nessuno così dedito al lavoro avrebbe mai ingannato sul suo lavoro, quindi hanno continuato a provare e alla fine hanno ottenuto risultati simili.
La dipendenza epistemica sottolinea anche l’importanza della condivisione del lavoro in corso. Prima degli interferometri, quando i fisici costruivano rilevatori di onde gravitazionali utilizzando barre di alluminio vibranti, proteggevano i loro dati grezzi e condividevano solo elenchi di rilevamenti che pensavano di aver fatto. Alla fine hanno iniziato a fidarsi l’uno dell’altro ea lavorare insieme più strettamente.
Se i fisici di LIGO e altri rilevatori si fossero attenuti ai vecchi metodi, ha detto Giaime, “avremmo potuto mancare la scoperta del secolo”: una collisione di stelle di neutroni nel 2017 che, a differenza della collisione del buco nero del 2015, è stata studiata anche mediante radiotelescopi, raggi gamma, raggi X e luce visibile. Ciò è stato possibile solo perché LIGO e Virgo hanno condiviso i dati, consentendo di individuare rapidamente dove si è verificata la collisione. Senza questa cooperazione, ha detto Giaime, “non avremmo conosciuto la posizione in cielo della coppia di stelle di neutroni abbastanza accuratamente da puntare in tempo i telescopi nella direzione giusta”.
Naturalmente, anche la dipendenza epistemica ha i suoi svantaggi. Tra tutti, i costi del turnover all’interno delle organizzazioni. Se qualcuno che è una parte fondamentale del progetto se ne va, si perdono pezzi di conoscenza e capacità collettive che non si possono ricostruire da soli. Poiché le modalità della collaborazione scientifica somo cambiate, la stessa cosa sta succedendo con i premi scientifici.
“Il Premio Nobel è un anacronismo di un’età precedente, quando le cose venivano fatte da un individuo o da un piccolo numero di persone”, dice Weiss, che ha condiviso il Premio Nobel per la fisica nel 2017 con Kip Thorne e Barry Barish per il suo lavoro sulle onde gravitazionali . “Mi sono sentito a disagio nel riceverlo e sono stato in grado di giustificarlo solo dicendo che rappresentavo anche gli altri”.
Nell’ufficio di Giaime alla fine della lunga visita, ci siamo fermati davanti una targa sul muro. Nel 2016, il Premio Speciale per l’Innovazione in Fisica Fondamentale è stato assegnato alla LIGO Scientific Collaboration. Un milione di dollari è andato a Weiss, Thorne e un altro fondatore, Ronald Drever, e 2 milioni di dollari sono stati divisi equamente tra mille altre persone. “È un ricordo di una sorta di nuova era della scienza”, ha detto Giaime, “dove grandi gruppi possono ottenere premi insieme”.
I premi si stanno adeguando al modo in cui la scienza opera oggi. I ricercatori hanno sempre avuto rapporti di dipendenza l’uno dall’altro per colmare le lacune nella conoscenza, ma la specializzazione e la collaborazione sono diventate più estreme, integrando reti globali di esperti del settore. La collaborazione scientifica LIGO coinvolge centinaia di persone, molte delle quali non si sono mai incontrate.
Usano strumenti e conoscenze fornite da migliaia di altri, che a loro volta fanno affidamento sugli strumenti e sulla conoscenza di milioni di altri. Tale organizzazione non avviene per caso: richiede sofisticati sistemi tecnici e sociali, che lavorino a stretto contatto. La fiducia porta a nuove scoperte che a loro volta alimentano la fiducia. Lo stesso vale per la società in generale. Se miniamo questo circolo virtuoso di fiducia e scoperte, la nostra capacità di conoscenza verrà meno.
E forse c’è una lezione più ampia, persino filosofica: si sa molto meno di quanto si pensi e anche molto di più. La conoscenza non può essere divisa tra le persone. Forse non si è in grado di spiegare la fotosintesi, ma si è parte integrante di un ecosistema epistemico che non solo può farlo, ma esaminarla a fondo e manipolarla a beneficio di tutti.