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    Sensi e dissensi tra fine e inizio d’anno

    Non soltanto la politica, complici le prossime elezioni, si divide su fronti contrapposti che affermano tutto e il contrario di tutto, ma anche il dibattitto culturale, e in particolare quello scientifico, procede con un colpo al cerchio e uno alla botte: segno evidente di un passaggio difficile, che deve misurarsi con prospettive conoscitive e operative ancora tutte da definire.

    di Gian Piero Jacobelli

    Nel riflettere sulle considerazioni più pertinenti in questo passaggio d’anno, l’attenzione tende a soffermarsi su quella figura retorica che si definisce “ossimoro” e che, non a caso, gode di una significativa diffusione anche nel linguaggio cosiddetto comune: una sorta di contraddizione in termini, l’ossimoro, che, etimologicamente, accosta nella stessa parola l’acuto e l’ottuso.

    Come avviene nelle valutazioni sugli andamenti economici nazionali e internazionali, a cavallo tra una ripresa innegabile, ma almeno in alcuni casi non convincente e comunque insufficiente. Come avviene nelle valutazioni sui più rilevanti fenomeni della globalizzazione, a cominciare dai flussi migratori, che ci si sforza di controllare, continuando ad alimentare le disuguaglianze tra popoli, nazioni, continenti, da cui quelle migrazioni sono provocate. Come avviene, last but not least, per le speranze e le preoccupazioni che da sempre accompagnano i progressi tecnologici, dove progresso allude a un procedere secondo una sorta di trial and error, più che a un processo di crescita affidabile e finalizzabile.

    Basta scorrere la nostra rivista online per cogliere nelle ultime settimane, con una accentuata frequenza, questo andamento ossimorico, sia per quanto concerne il mondo del lavoro – cresce l’automazione, diminuiscono i posti di lavoro, anche se ne stanno emergendo di nuovi, che però non trovano immediata rispondenza negli attuali sistemi formativi, e così via in una incessante pendolarità tra i diversi fattori in gioco – sia per quanto concerne la produzione di energia, che da un lato asseconda la crescita produttiva, ma dall’altro lato fa crescere anche le preoccupazioni per gli equilibri ambientali. Per concludere con il problema dei problemi, vale a dire la ormai concreta capacità di intervenire sulle piattaforme genetiche della vita, che consente prospettive terapeutiche solo pochi anni fa impensabili, ma prefigura anche livelli elevatissimi di rischio generazionale e, quindi, di responsabilità individuale e collettiva.

    E basta gettare l’occhio sulla copertina dell’ultimo fascicolo della edizione americana di MIT Technology Review per cogliere la predetta problematica ossimorica espressa in una eloquente alternativa di acronimi assai noti: “GMO/OMG” (un nuovo acronimo, variamente auspicabile, che ricombina un vecchio acronimo, tante volte discusso e a volte deprecato), accompagnata da un altrettanto eloquente interrogativo: «Può il gene editing eliminare la paura degli GMO?». Ancora una volta speranza e paura vanno insieme, l’una motivando e provocando l’altra.

    Forse mai come in questi anni, dopo un lungo periodo di aspettative inflazionate e poi deluse, sfociate in una vera e propria crisi depressiva, la ripresa, il modo con cui si guarda al futuro, ha assunto un andamento così altalenante: segno che la barca va, ma ancora non si sa bene dove stia andando. 

    Né si tratta soltanto di una sorta di implicazione logica, di un “se, allora”, che esprimerebbe una maggiore consapevolezza di quei rapporti di causa ed effetto che la rivoluzione tecnologica tende a rendere sempre più intricati e retroattivi. Si tratta anche, e forse soprattutto, di una strutturale ambiguità dei processi attraverso cui giungono a dispiegarsi le potenzialità della innovazione, non soltanto tecnologica, ma anche economica e sociale. Questa ambiguità si sviluppa secondo una duplice modalità. 

    Da un lato, risulta ambigua nella misura in cui il mondo è ambiguo, in quanto presenta differenze e divergenze sempre più accentuate, tra chi ha molto e chi ha poco e talvolta niente. Perciò, quando le cose sembrano andare avanti per alcuni, per altri di fatto vanno indietro, peggiorando le condizioni e le relazioni di vita. 

    Dall’altro lato, con un residuo ottimismo per le generazioni che verranno dopo la nostra e che molte, troppe analisi sociologiche definiscono come perdute, risulta ambigua nella misura in cui è ambigua la condizione di passaggio in cui ci troviamo e per cui gli stessi fatti sembrano sempre venire fatti da altri, a nostra insaputa, per richiamare una locuzione divenuta purtroppo proverbiale.

    Passaggio non significa trovarsi in mezzo al guado, tra una situazione, quella presente, e un’altra, quella futura. Significa trovarsi in una situazione confusa, anche se formativa, precaria, anche se propulsiva. Una situazione che, consentendo o, meglio, imponendo di prendere le distanze dal passato, induce simmetricamente a percepire il mondo di dentro, il mondo in cui effettivamente ci troviamo, come un mondo di fuori, un mondo spesso indecifrabile e comunque alieno.

    In effetti, molti degli allarmi che cadenzano quotidianamente la nostra vita, da quelli economici a quelli ambientali, da quelli sociali a quelli politici, sembrano non tenere conto delle intrinseca tendenza di ogni organizzazione complessa a ripristinare gli equilibri che vengono messi in questione dai molteplici fattori innovativi che caratterizzano la modernità. 

    Certo, questi equilibri non possono manifestarsi contestualmente agli squilibri incalzanti e in questa isteresi contestuale risiede la inevitabile sofferenza che ogni cambiamento comporta. Inoltre, come avviene per le rivoluzioni scientifiche, ogni equilibrio emergente comporta un’alternanza di paradigmi e di protagonisti, in senso sia geografico, sia culturale, a cui chi può, si sforza di resistere, remando contro.

    In definitiva, quello che bisogna temere e che va combattuto è il cambiamento gattopardiano, il cambiamento in cui tutto deve cambiare perché nulla cambi: in altre parole, il tentativo di chi oggi detiene il potere politico, economico e culturale, di mantenerlo a onta di quanto sta avvenendo nel mondo globalizzato della mobilità e della comunicazione. 

    Il problema non è quello di mettere i fiori nei propri cannoni, ma di fondere questi cannoni per farne qualcosa che, unendo, non provochi, ossimoricamente, ulteriori divisioni.

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