Le considerazioni di Alessandro Ovi (5 novembre 2016) e l’incontro promosso da Federmanager all’Università Cattolica di Milano (7 novembre 2016) sulla complessa relazione tra nuove tecnologie e occupazione meritano qualche ulteriore riflessione, per sottolineare la rapidità con cui avvengono i cambiamenti tecnologici e la conseguente difficoltà ad avanzare ipotesi attendibili.
di Gian Piero Jacobelli
Chiedersi se con la rivoluzione tecnologica 4.0 il lavoro rischi di scomparire, è domanda che ne implica molte altre, a cominciare da quella, fondamentale, concernente proprio le caratteristiche e i limiti della rivoluzione tecnologica 4.0.
In proposito, Alessandro Ovi (MIT Technology Review Italia), osservava che «non abbiamo ancora iniziato a digerire Industria 4.0 e già arriva in modo prepotente Industria 5.0, governata dalla Intelligenza Artificiale».
In effetti, non sembra ancora del tutto chiaro come il contesto produttivo tenda a mutare in maniera sostanziale quando all’automazione e alla robotica si aggiunge quella che è stata chiamata Intelligenza Artificiale. Vale a dire la capacità di gestire grandi quantità di dati, consentendo alle macchine di “imparare” e inaugurando quella “manifattura additiva” (stampa 3D) che trasforma radicalmente gli ambiti della produzione, sottraendoli al monopolio della fabbrica tradizionale.
Grazie alla Intelligenza Artificiale, che sostituisce oltre alla manodopera anche alcuni lavori intellettuali, sia nei settori produttivi, sia in quelli dei servizi, diventa sempre meno vero – come, forse con eccessivo ottimismo, ha affermato John Leonard, docente di ingegneria del MIT – che «le macchine non potranno sostituire del tutto chi lavora, perché non si può fare a meno di chi guida».
In realtà, tutto cambia sempre più in fretta. Anche nelle rivoluzioni tecnologiche, infatti, sembra valere una sorta di Legge di Moore: cento anni dalla prima rivoluzione (quella dell’acqua e del vapore, alla fine del Settecento) alla seconda (quella della elettricità e della produzione di massa), circa cinquant’anni dalla seconda alla terza (quella dell’elettronica e dei computer), 25 anni dalla terza alla quarta (quella dell’automazione e della robotica) e assai meno dalla quarta alla quinta (quella, appunto, della Intelligenza Artificiale).
Tutto ciò accresce il divario tra produttività e occupazione, di cui Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee, della MIT Sloan School of Management, hanno evidenziato una netta accelerazione soprattutto a partire dal 2000. E ciò, nonostante la complessità dei fattori connessi sia alla tecnologia, sia al mercato e, quindi, le continue oscillazioni tra previsioni apocalittiche e previsioni utopistiche.
Se, infatti, da un lato, l’automazione che tende a investire anche alcuni lavori qualificati, può provocare un calo dei consumi e un ulteriore calo occupazionale, dall’altro lato la stessa automazione sta riducendo i vantaggi dell’outsourcing manifatturiero nei paesi a basso costo del lavoro, inducendo molte produzioni a rientrare nei Paesi da cui erano migrate, in particolare anche negli Stati Uniti.
Per altro, anche in conseguenza di questi rientri, la Industria 4.0 o 5.0 non solo incide variamente sulla occupazione, ma tende ad aggravare quello che si potrebbe definire il “digital divide 5.0”, accentuando le distanze tra di chi dispone e chi non dispone della Intelligenza Artificiale. Con problemi etici e politici, su cui i grandi gruppi dell’informatica, come Alessandro Ovi sottolineava, si stanno già confrontando.
Anche più complesse sono le valutazioni occupazionali concernenti l’Italia che, a parte la perdurante crisi economica, potrebbe andare meglio di altri paesi europei proprio perché il suo sistema industriale è caratterizzato da dimensioni piccole e medie, dove la qualità continua a fare aggio sulla quantità. Forse perché, come dimostrano gli interventi raccolti nel Dossier di MIT Technology Review Italia e Federmanager, le imprese italiane non hanno tardato a investire nelle tecnologie del cosiddetto smart manufacturing. E forse perché fortunatamente molto si muove nell’indotto, soprattutto nel terziario avanzato, per quanto in maniera non immediatamente evidente.
Per la diversità delle condizioni di partenza e degli obiettivi da perseguire secondo le caratteristiche di ogni paese, il problema occupazionale impone scelte diversificate e articolate, sociali e culturali.
Non a caso, nel citato Dossier il presidente di Federmanager Stefano Cuzzilla sottolineava quanto la rivoluzione industriale concerna l’intera catena del valore, per cui non se ne dovrebbe parlare come di qualcosa che si subisce, ma come di una sollecitazione eminentemente “politica”, al tempo stesso aziendale e nazionale.
Non basta orientarsi sulle occupazioni dello STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), ma è necessario che gli interventi formativi, infrastrutturali (banda larga), finanziari (venture capital) e fiscali, quali previsti dal piano del governo per l’Industria 4.0, si inquadrino in una riflessione sugli effetti di secondo grado: quelli sul mercato, ma anche quelli sulla società.
Ciò comporta che l’innovazione – sia 4.0, sia 5.0 – se tigre deve essere, venga considerata una tigre che si può cavalcare, tenendo conto dei vari interessi in gioco.
Altrimenti, a non accorgersi del cambiamento, c’è rischio che il cambiamento non si accorga di noi.