Le persone stanno iniziando a mettere in discussione la narrativa dell’inevitabilità del progresso tecnologico e non sembrano più disposte a credere che le grandi aziende tecnologiche favoriscano il progresso sociale.
di Angela Chen
L’inaspettata vittoria di Donald Trump nel novembre 2016 è stata una svolta non solo in politica, ma anche nella tecnologia. La narrativa sul suo ruolo nella società è iniziata a cambiare rapidamente e Big Tech si è presa la colpa dell’erosione della democrazia. Oggi gli Stati Uniti stanno aspettando altre elezioni presidenziali, ma a tre anni dall’ultima è difficile vedere quanti progressi siano stati fatti.
È vero che i problemi stessi sono diventati più chiari. Ora sappiamo che l’Internet Research Agency della Russia ha utilizzato un esercito di troll per tentare di influenzare le elezioni. (Lo ha stabilito anche un comitato di intelligence del Senato). Facebook e Twitter cercano con difficoltà di contrastare la propaganda politica. E almeno questa volta Facebook ha piani concreti per combattere la disinformazione elettorale.
Ma molte cose rimangono irrisolte. Sappiamo che la Russia ha usato quei robot, ma non è ancora chiaro se queste interferenze abbiano realmente fatto cambiare idea alle persone (in effetti, gli studi hanno suggerito che per la diffusione delle notizie false, la persuasione mediatica potrebbe non essere così efficace).
La disinformazione sembra essere sempre più in aumento in tutto il mondo. CloudFlare, che si occupa di servizi di sicurezza Internet, ha chiuso 8chan, un noto hot spot online per estremisti violenti, per i suoi collegamenti con le stragi in America, ma ora il sito è riapparso con il nome di 8kun.
Nessuno si aspettava che queste grandi e spinose domande sulla libertà di parola e sulla governance della piattaforma fossero risolte rapidamente. Ma nonostante tutto ciò che è accaduto tra il 2016 e ora, è solo nell’ultimo anno che sono iniziate a essere sviluppate politiche reali, spesso insufficienti.
Questa incapacità appare con tutta evidenza nella lotta in corso sulla pubblicità politica. Le piattaforme tecnologiche hanno tutte reagito con una certa lentezza, ma affrontano questi problemi in modo diverso. Facebook si rifiuta di esprimere un giudizio sulla pubblicità politica, il che significa che il suo team di verificatori di fatti non esaminerà nulla di ciò che un candidato dice in una pubblicità a pagamento.
Per questa ragione chi porta avanti la campagna elettorale di Trump ha potuto pubblicare un annuncio che mentiva sui rapporti di Joe Biden con l’Ucraina e perché Elizabeth Warren ha potuto mettere alle strette Mark Zuckerberg acquistando un annuncio dichiaratamente falso.
Facebook ha dovuto affrontare molte critiche per questa posizione. Ma Zuckerberg, sostenendo di difendere gli ideali della libera espressione, continua a dipingerlo come una scelta tra accettare menzogne nella pubblicità politica e, come ha detto in un discorso alla Georgetown University, vivere in un mondo in cui “puoi solo pubblicare cose che le aziende tecnologiche giudicano vere al 100 per cento”.
Questa è una scelta ipocrita, come dimostrato da Google, che ha vietato il microtargeting e le “affermazioni false” nella pubblicità politica. Twitter, nel frattempo, non rinunciando a qualche frecciata polemica con Facebook, ha completamente vietato la pubblicità politica, compresi gli annunci pubblicitari.
Eppure neanche questi approcci sembrano essere la risposta. La questione è un terreno a rischio e un divieto totale di pubblicità politica rischia di limitare la libeertà d’azione degli sfidanti nelle competizioni locali.
Queste aziende potrebbero non avere nemmeno l’infrastruttura per mantenere le proprie promesse: un divieto di pubblicità politica nello stato di Washington ha provocato un disastro. Facebook ha cercato di rimediare promettendo trasparenza nei suoi annunci, ma il database che doveva garantirlo ha avuto un crash prima delle elezioni nel Regno Unito.
Le prime primarie del 2020 sono tra due mesi e siamo più vicini a capire cosa stanno facendo queste aziende. Sembra che non siano pronti. Di conseguenza, tutti gli altri si rendono conto della verità dell’adagio: “Se vuoi fare qualcosa di giusto, devi farlo da solo”.
La situazione è complessa. Da una parte Elizabeth Warren che spinge per rfare uno “spezzatino” delle grandi aziende tecnologiche, dall’altra il Congresso che ha tenuto un’audizione sulla Sezione 230, un atto legislativo relativo a Internet che protegge le aziende tecnologiche dall’essere citate in giudizio per ciò che la gente pubblica (La relatrice Nancy Pelosi ha definito la Sezione 230 un dono che le aziende tecnologiche non hanno sufficientemente apprezzato).
Anche i problemi del lavoro nelle aziende tecnologiche sono diventati un tema importante. Stanchi delle cattive condizioni di lavoro, i moderatori di Facebook parlanodelle lotte in difesa della salute mentale e fanno causa per i traumi psicologici legati alla visione dei contenuti da moderare.
A Pittsburgh, gli appaltatori di Google si sono sindacalizzati. Le presunte attività di smantellamento del sindacato di Google hanno portato a una causa e a un’indagine federale. I conducenti di Uber e Lyft sostengono una legge della California che li classificherebbe come dipendenti. I lavoratori di Instacart hanno scioperato a novembre.
Le elezioni del 2016 hanno chiarito quanto siano grandi i problemi e le incombenti elezioni del 2020 evidenziano quanto poco si stia facendo. Il risultato è che le persone “stanno iniziando a mettere in discussione la narrativa dell’inevitabilità tecnica e contestano l’idea che il progresso tecnologico sia in realtà un progresso sociale”, afferma Meredith Whittaker dell’IA Now Institute della New York University.
Una delle conclusioni del rapporto annuale dell’Istituto (pubblicato all’inizio di dicembre) è che i gruppi di comunità, i lavoratori e i ricercatori – e non le politiche di etica aziendale o qualunque cosa stiano facendo le aziende – abbiano la responsabilità di esercitare un controllo sulla tecnologia.
Sempre più, tutti si stanno rendendo conto che le aziende non cambieranno da sole e che ci vorrà una campagna presidenziale o un grande movimento di lavoratori per modificare le cose. Come Shona Clarkson, del gruppo di attivisti Gig Workers Rising che ha contribuito a far approvare la legge della California, ha affermato: “Queste aziende hanno paura, e questo ci dimostra che quando si combatte uniti, si cambiano le situazioni”. Quindi nel 2020, la grande domanda per le aziende tecnologiche è: cambierete da sole o aspetterete che vi forzino la mano?
Foto: AP / Jose Luis Magana