Gli incalzanti processi di cambiamento che caratterizzano oggi i sistemi economici, politici e sociali suscitano crescenti allarmi, in cui si esprime il disagio di un mondo che non può più venire descritto e interpretato secondo i paradigmi tradizionali e le sottostanti strutture di potere.
di Gian Piero Jacobelli
Ovviamente non si parla d’altro: la pandemia sta sulle bocche di tutti, ma soprattutto sta nella testa di tutti. Non si pensa ad altro e questa sorta di ossessione, comunque giustificata dalla gravità della situazione e dai rischi che chiunque può correre senza rendersene conto, è anche peggiore dei discorsi di chi non sa, ma pretende di sapere, e di chi sa, ma non vuole assumersi la responsabilità di ciò che ritiene di sapere.
Peggiore perché, come segnala giustamente Gideon Lichfield nell’editoriale dell’ultimo fascicolo cartaceo di MIT Technology Review USA (novembre-dicembre 2020), ogni emergenza, in particolare l’attuale emergenza sanitaria, induce, se non costringe a guardare vicino, trascurando i problemi, altrettanto gravi, che si proiettano sul medio e sul lungo termine: «Come l’immagine sulla nostra copertina» – un cristallo incrinato, su cui è stato applicato un piccolo cerotto, nella illusione che riesca a impedirne la frammentazione – «intende suggerire , i mutamenti necessari perché il futuro appaia meno precario del presente non possono ridursi alla politica dei cerotti che è stata adottata negli anni passati – una carbon tax qui, un incremento delle provvidenze assistenziali là ». In altre parole, una politica dei piccoli passi, mentre la strada da percorrere resta lunghissima e accidentata.
Non si tratta soltanto – scriveva lo stesso Lichfield nell’editoriale del precedente fascicolo (settembre-ottobre 2020), che portava in copertina a caratteri cubitali la parola “Power”, per chiedersi chi lo possegga, chi lo desideri e chi lo stia perdendo – di un pensare al presente che impedisce di pensare al futuro.
Si tratta piuttosto di un modo di pensare, per così dire, “presentificante”, che anche quando pensa il futuro, lo pensa misurandolo sulle prospettive ristrette di un presente in cui le vecchie e nuove rivalità continuano a soggiogare pensieri, parole e opere: «Negli ultimi decenni l’opinione diffusa tra le élite globali è stata che la tecnologia tende a rendere il mondo più piatto, più piccolo, più aperto e più equo. Questa opinione ora sembra sempre più falsa, o almeno semplicistica. I paesi sono in lizza per il dominio nelle tecnologie che potrebbero dare loro un vantaggio strategico: comunicazioni, energia, Intelligenza Artificiale, sorveglianza, tecnologia agricola, sicurezza informatica, tecnologia militare e ora, in mezzo a una pandemia globale, medicina e produzione. L’impulso delle nazioni ad accumulare capacità tecnologiche e usarle come strumento di potere geopolitico è ciò che intendiamo per “tecnonazionalismo”. La tesi è che l’ordine emerso successivamente alla Guerra Fredda si stava già frammentando e il Covid-19 sta finendo il lavoro».
In questa sintesi incisiva emerge la consapevolezza, incerta e però insistente, di quello che potremmo definire come un “ordine confuso”, un ordine che si pretende ordinato, ma che in realtà si trova invischiato nelle proprie contraddizioni e adotta la retorica dell’ordine in una ulteriore, anacronistica pretesa di dominio su chi quell’ordine non vuole o non può condividere.
Come uscire da questa condizione aporetica, che sembra fare due passi indietro a ogni tentativo di farne uno in avanti? Se il peccato di origine risiede proprio in questo “ordine confuso”, nella pretesa di tenere in ordine quanto all’ordine resiste strutturalmente e funzionalmente, potremmo prefigurare una sorta di “confusione ordinata”, in cui i vincoli impellenti del presente si sciolgano nella dimensione creativa, o comunque non vincolante, di un futuro che, cessando di rispondere esclusivamente ai problemi del presente, possa fare fronte ai problemi derivanti proprio dai cambiamenti che stanno maturando nel presente.
Certo, si tratta di un serpente che si mangia la coda: la “confusione”, che pure apre tante porte destinate in precedenza a restare chiuse, fa paura e, quanto più si diffonde, tanto più contribuisce ad accentuare la domanda di controllo, con tutte le pregiudiziali oppressive di cui si correda.
Quando Isaac Asimov, il famoso scrittore di fantascienza, rilevava come la creatività richiedesse di pensare di più, aprendosi a diversi modi di pensare, in fondo suggeriva una analoga dialettica tra eccessi del controllo e processi della confusione, per quanto si tratti di istanze fatalmente conflittuali, perché coinvolte in una reciproca e aggressiva istanza valoriale.
In definitiva, piuttosto che rimuovere a tutti i costi la ansiogena percezione della confusione, il problema è quello di interpretarla non come un incoerente e degenerante decadimento formale, ma come un passaggio verso nuove forme, caratterizzate da un livello superiore di complessità.
Accettando la confusione in quanto tale, allo scopo di finalizzarla verso inediti obiettivi. Cavalcando la confusione per coglierne le opportunità innovative e propulsive implicite nelle sue stesse enigmatiche alternative.
(gv)