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    Passaggi tecnologici

    Industria 5.0, intesa come paradigma evolutivo verso il dialogo uomo-macchina, sembra oggi riconnotare nel senso della Intelligenza Artificiale la rapidissima evoluzione dell’attuale quarta rivoluzione industriale.

    di Gian Piero Jacobelli

    Quando si lavora con gli scenari, il cui scopo è quello di precedere la realtà, talvolta succede di imbattersi improvvisamente nella realtà che si è cercato di descrivere anticipatamente.

    Da oltre un anno MIT Technology Review Italia sta illustrando una realtà innovativa, quella della progressiva digitalizzazione delle attività produttive, che ha definito Industria 5.0 per sottolineare due cose: che il progresso tecnologico corre più in fretta della stessa possibilità di prevederlo e che, di conseguenza, proprio mentre si sta affermando Industria 4.0, con qualche fatica per la verità e non soltanto in Italia, già preme alle porte un suo stadio ulteriore con cui si dovrà fare i conti prima ancora di avere compreso in tutta la sua portata lo stadio precedente.

    Dopo le rivoluzioni industriali che hanno preceduto la Industria 4.0 – la 1.0, con la forza dell’acqua e del vapore, alla fine del Settecento; la 2.0, con la elettricità e la catena di montaggio, alla fine dell’Ottocento; la 3.0 con la informatica e l’automazione, alla fine del Novecento – oggi tocca alla Intelligenza Artificiale di rendere progressivamente obsoleti i sistemi cibernetici ancora basati sulla imitazione ripetitiva dei comportamenti umani.

    Con Industria 5.0 alla automazione e alla robotica si aggiunge la capacità di gestire grandi quantità di dati, consentendo alle macchine di “imparare” e inaugurando la “manifattura additiva” (stampa 3D), con un passaggio dal digitale al reale, che allarga i campi della produzione. La Intelligenza Artificiale, inserita in rete e collegata al mondo reale mediante sensori diversificati e specializzati, sostituisce anche alcuni lavori intellettuali, anche se, come ha affermato John Leonard, docente di ingegneria del MIT – «le macchine non potranno sostituire del tutto chi lavora, perché non si può fare a meno di chi guida». Resta, ovviamente, da precisare cosa possa comportare la responsabilità di “guidare” in un mondo sempre più “a guida automatica”.

    Industria 5.0 può essere vista come un salto qualitativo della informatica interconnessa di Industria 4.0. Si veda in proposito il dossier di MIT Technology Review Italia, pubblicato online qualche giorno fa e intitolato appunto Industria da 4.0 a 5.0. Si tratta di una frontiera dell’innovazione tecnologica in rapidissimo movimento che, combinando diverse tecnologie “da lontano” (come nano e bio-tecnologie, sensoristica, Internet delle Cose, realtà virtuale aumentata, cloud e mobile), realizza nuove soluzioni organizzative, flessibili e interattive, nei processi produttivi, passando attraverso sistemi che si autoprogrammano per interagire con gli operatori, con oggetti sconosciuti e in genere con l’ambiente, grazie alla visione artificiale e alla realtà aumentata.

    Scenari ancora futuribili? Tutt’altro! Come ogni anno, MIT Technology Review USA illustra nel suo ultimo fascicolo (marzo-aprile 2018) le 10 tecnologie più promettenti, che non a caso vanno a collocarsi più sul versante di Industria 5.0 che su quello di Industria 4.0. Per citarne solo alcune: stampa metallica 3D, embrioni artificiali, smart city, Intelligenza Artificiale distribuita, reti neurali competitive, traduzione in tempo reale, gas a zero emissioni, online privacy, genomica previsionale, progettazione molecolare quantica.

    In effetti, nel suo editoriale il direttore della edizione americana di MIT Technology Review, Gideon Lichfield, rileva come da alcuni anni a farla da padrona sia la Intelligenza Artificiale e, per altro, come molte di queste nuove tecnologie presentino prospettive eticamente ambivalenti, forse proprio perché oltrepassano troppo rapidamente i confini del senso comune e della morale corrente.

    I timori per l’ambivalenza etica – ma sarebbe filosoficamente più corretto parlare di morale – della tecnologia riguardano i fronti più avanzati della ricerca: da quelli biotecnologici – in queste ultime settimane si è discusso, per esempio, della realizzazione di embrioni misti, animali e umani, per la realizzazione di organi xenogenici da trapiantare – a quelli relativi ai sistemi di controllo informatico.

    Un antico interrogativo torna di attualità: il bene e il male ineriscono alla tecnologia stessa, come sembrerebbe evidente per le armi, o non piuttosto agli scopi di chi la impiega? Ma forse, come si è accennato, il problema non risiede tanto in un giudizio morale, che cambia di tempo in tempo e di luogo in luogo, ma appunto nella “distanza” eticamente rilevante che ogni tecnologia comporta rispetto al proprio obiettivo operativo: una “distanza etica” che proprio il “contenzioso morale” tenderebbe a occultare e rimuovere, come ha scritto scritto qualche anno fa Alberto Abruzzese: «Si è fatta grande retorica di traghettamenti e transiti. Ma si dovrebbe parlare piuttosto di un soggetto storico che si sta riducendo a pura potenza, virtualità (così risuona la propaganda sulle tecnologie, la promessa di divenire tutto ciò che si è desiderato). Un soggetto che resta dentro la propria cornice, dentro le mura del proprio abitare. E nella stessa chiusura di questa cornice legge lo sviluppo tecnologico: lo assoggetta all’idea umanistica di una sensorialità separata dalle macchine, in grado di dominarle, di volgerle al proprio bene e al proprio  male».

    Non è facile cogliere tutta la portata delle considerazioni di Alberto Abruzzese nei passaggi tra umano e post-umano. Ma, prescindendo dalla loro potenziale e dirompente radicalità, si può cercare di non smarrirne la indicazione fondamentale: quella relativa alla possibilità di non restare necessariamente se stessi proprio restando sostanzialmente se stessi.

    Nel campo del fare, il proposito dovrebbe essere, se non altro, quello di diversificare i nostri obiettivi di affermazione personale, senza considerarli come i vincoli irrinunciabili degli attuali processi formativi. Lasciando che la vocazione, l’essere sostanzialmente se stessi, torni a prevalere sulla professione, l’essere necessariamente se stessi. 

    Più facile a dirsi che a farsi, certamente, dal momento che tutto nell’attuale sistema culturale sembra remare contro. Ma almeno, nel passaggio vorticoso tra una piattaforma tecnologica e l’altra, tra Industria 4.0 e Industria 5.0, non si dovrebbe rinunciare a discuterne.

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