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    Nuove frontiere della tecnologia musicale 1. Dai suoni artificiali ai suoni prelevati dalla realtà

    Con l’avvento della elettronica, la composizione e la esecuzione musicale stanno acquisendo possibilità imprevedibili. Il prof. Massimo Negrotti, docente di metodologia nella Università di Urbino e studioso delle relazioni tra naturale e artificiale, nonché musicologo e compositore, esplora queste nuove frontiere in tre articoli che verranno pubblicati in successione nella nostra Home Page.

    di Massimo Negrotti

    Nelle sue prime fasi storiche l’avvento dell’elettronica nella musica ha fondamentalmente comportato, in alcuni casi, il tentativo di riprodurre artificialmente il suono dei più diversi strumenti acustici tradizionali e, più largamente, la ricerca di nuove vie compositive attraverso l’impiego di dispositivi in grado di creare suoni in precedenza inesperiti o di manipolare suoni consueti per mezzo di dispositivi e procedure prima inesistenti. È solo il caso di accennare, in proposito, alle numerose sperimentazioni che nel Novecento si sono susseguite nell’ambito di quella che, genericamente, viene definita “musica elettronica”: dalla generazione di suoni per mezzo di oscillatori (Karlheinz Stockhausen) alla tape music e dal montaggio sonoro (John Cage) alla combinazione di suoni tradizionali ed elettronici (Iannis Xenakis).

    Tuttavia, l’impiego di tecnologie elettroniche, in particolare di sistemi digitali e quindi dei computer, ha dato luogo negli ultimi decenni del secolo scorso a un fenomeno inaspettato e paradossale. Ci riferiamo alla tecnica grazie alla quale il suono “naturale” di strumenti musicali tradizionali, come quelli presenti in un’orchestra, viene registrato e dunque messo in grado di venire riprodotto a piacimento. Questa tecnica, di norma definita come sound sampling, risponde in fondo a una vecchia ambizione perché già avviata, in nuce, dalle sperimentazioni della tape music, ma punta su un obiettivo assai più radicale: la messa a disposizione del compositore di strumentisti virtuali ai quali affidare la propria composizione. Siamo così di fronte a una sorta di rivincita della musica strumentale in senso lato “classica”, resa possibile da una tecnologia, quella elettronica, in un primo momento accolta soprattutto come risorsa per esplorare strategie compositive del tutto inusitate e per certi versi trasgressive.

    La riproduzione artificiale del suono di strumenti acustici classici era già stata tentata attraverso i sintetizzatori elettronici, a cominciare dalle progettazioni di Laurens Hammond attorno al 1940, e, anche qui, l’avvento dell’elettronica digitale ha enormemente espanso la tipologia dei prodotti. Tuttavia, il risultato più eclatante di questa tradizione di ricerca – che si colloca propriamente nell’ambito della tecnologia dell’artificiale, la quale coniuga modelli matematici, algoritmi e circuiti elettronici – non è stato il successo della riproduzione bensì la produzione ex novo di suoni prima sconosciuti. Nonostante alcune approssimazioni abbastanza convincenti, non è arduo riconoscere l’artificialità di una sezione di violini o un pianoforte “sintetizzati”, ma nel contempo essi offrono un allargamento dello spazio sonoro, e quindi del cosiddetto sound design, che ha ispirato soprattutto, ma non solo, i compositori di musica popolare o finalizzata a generare effetti ritenuti utili a scopi commerciali.

    La tecnologia del sound sampling propone, invece, una strategia che aggira l’artificiale attraverso il “prelievo” del suono direttamente dagli strumenti classici. In pratica, uno strumentista viene invitato a produrre ogni nota dell’estensione che caratterizza il suo strumento e i suoni vengono quindi registrati come file indipendenti che poi il compositore utilizzerà disponendoli nelle battute della sua composizione, affidata ovviamente a un software specializzato.

    Il principio è decisamente semplice e innovativo, ma, come accade sempre in questi casi, il suo sviluppo ha posto in essere varie problematiche. Per esempio, può risultare interessante proporre un’analogia con ciò che è avvenuto nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale con il natural language processing, che aveva entusiasmato i primi ricercatori, fra cui il premio Nobel Herbert Simon. La disillusione venne dalla scoperta che la sintassi, sulla cui base lavora il computer, non è sufficiente per ottenere la comprensione di una frase da tradurre poiché la semantica, con tutte le sue varianti e sottigliezze non formalmente descrivibili, reclama i suoi diritti.

    Altrettanto la composizione musicale attuata per mezzo di sample, con l’idea di produrre, per esempio, esecuzioni orchestrali già “pronte per l’ascolto” come ci si trovasse di fronte a un’orchestra vera e propria, non può contare solo sulle regole compositive intese in senso puramente sintattico (regole della tonalità, dell’armonia e del ritmo o dell’orchestrazione). Al posto della semantica, fondamentale per il linguaggio, nell’esecuzione musicale c’è l’interpretazione, cioè l’insieme di accentuazioni e colori che fanno di un esecuzione solistica od orchestrale, ma anche vocale, qualcosa non solo di unico, ma di espressivamente ricchissimo di elementi che afferiscono alla personalità degli esecutori e al loro modo di rivivere l’atto compositivo.

    In definitiva, il rispetto dei requisiti informazionali nelle procedure di sampling, ossia fondamentalmente del teorema di Nyquist-Shannon, e l’adozione delle più sofisticate tecnologie di registrazione non sono sufficienti per assegnare a uno strumento virtuale la necessaria flessibilità. Registrare digitalmente una singola nota, poniamo un Re, eseguita da un pianista, consente certamente di riprodurre quella nota con grandissimo realismo, ma essa possederà un “colore” dipendente dalla forza con cui l’esecutore l’avrà generata, una forza la cui intensità appartiene a un range potenziale prossimo all’infinito. Se, a quel Re, il compositore aggiungesse una seconda nota, poniamo un Mi, ponendo in essere l’incipit di una melodia, il carattere “non interpretato” e non correlato della sequenza si renderà più chiaramente rilevabile. O, per meglio dire, l’interpretazione verrà decisa dalla forza con cui il pianista avrà generato i sample, ignorando del tutto la successione melodica in questione e ogni altra possibile.

    Per questo, in una prima fase di sviluppo del sound sampling, i suoni che venivano messi a disposizione del compositore erano piuttosto “neutri” poiché le Case produttrici, cercando di rendere “universale” l’impiego dei loro sample, finivano per produrre suoni né troppo né troppo poco espressivi, nella speranza di rispondere, in questo modo, alle più disparate esigenze dei compositori.

    Il salto successivo, grazie alla disponibilità di memorie per computer più capienti a rapido accesso e di macchine sempre più veloci, è stato quello dell’introduzione, per ogni strumento offerto al mercato, di più “librerie”, cioè di suoni che, sempre coprendo l’intera estensione di uno strumento, fossero diverse fra loro per articolazione e dinamica. Così, un clarinetto virtuale nelle mani di un compositore, poteva contare su tutte le note dal Mi2 al Do6 con attacco marcato oppure in crescendo, staccato o spiccato e così via. Inutile aggiungere che, a questo punto, il compositore doveva letteralmente “comporre” il brano costruendolo per mezzo della selezione e messa in sequenza dei file di sample ritenuti più idonei. Questa soluzione, che rappresentava certamente un passo in avanti, rimaneva però troppo meccanica poiché il passaggio da un’articolazione all’altra consisteva inevitabilmente in un salto immediato, senza la continuità che, invece, un esecutore umano sa dare passando da un suono a un altro. Stiamo parlando, fra l’altro, del legato, una caratteristica senza la quale l’esecuzione di molte musiche diviene impossibile o, comunque, non coerente con le prescrizioni dell’autore. La soluzione fu trovata (per esempio da VSL, Vienna Symphonic Library, e da LASS, Los Angeles Scoring Strings) nella maniera più semplice, ma non sempre efficiente: la registrazione di tutte le legature fra tutte le possibili note, dando luogo a ulteriori serie di file che il compositore avrebbe attivato quando necessario. La stessa tecnica veniva adottata in molti casi per il portamento ovviamente per gli strumenti che siano in grado di generarlo nella loro versione “naturale”.

    Inoltre, per quanto numerose, le librerie erano pur sempre in numero limitato. Talvolta, poi, non contenevano esecuzioni direttamente prelevate da uno strumentista, ma erano semplicemente il risultato di procedure di elaborazione successive con cui, per esempio tagliando l’inizio del sample di una nota e aumentandone il volume, si simulava un attacco marcato, oppure, attenuando la parte finale dello stesso sample, si simulava un diminuendo. Il tutto, senza però che risultasse modificata la dinamica del suono, così come invece accade per qualsiasi strumento reale.

    La fase successiva, che stiamo tuttora vivendo, ha visto l’introduzione di tecniche più sofisticate per mezzo delle quali le funzioni sopra descritte vengono realizzate in modo trasparente per l’esecutore. Il compositore attiva il passaggio, poniamo, da uno “staccato” a un “sostenuto”, mediante un segno digitale inserito nella partitura nei vari momenti in cui la transizione viene ritenuta necessaria. Ma la più importante innovazione, a nostro parere, è consistita nell’introduzione della dinamica del suono attraverso la registrazione di più suoni, con diversa dinamica, per ogni nota. I diversi file sono poi attivabili in via grafica e, grazie a varie tecniche di crossfading, il passaggio avviene senza “salti” bruschi. In tal modo una sezione di violini può eseguire una nota passando gradatamente da un attacco soft a un suono forte, esibendo il naturale colore che i violini producono grazie alla minore o maggiore forza con cui la corda viene premuta dall’arco. Ovviamente, il realismo del passaggio dipenderà, ancora una volta, dal numero di registrazioni, e dunque di file, che saranno state effettuate per quella sezione di violini.

    Infine, nel tentativo di inseguire e riprodurre il suono dello strumento reale quando esso è nelle mani di uno strumentista in carne e ossa, viene introdotta una tecnica (chiamata round-robin) per la quale una stessa nota viene registrata più volte, ma con la stessa intensità. Poiché nessuno strumento musicale – a parte il cembalo e l’organo – produce lo stesso, identico suono per ogni nota eseguita, il round-robin riesce a evitare il fastidioso effetto meccanico (machine gun effect) generato dalla ripetizione di una nota all’interno di una esecuzione, impiegando un sample selezionato a turno o casualmente dall’insieme disponibile nella libreria.

    Immagine: Una sessione di sampling di archi (Spitfire Audio). I microfoni, di vario tipo, sono collocati in posizioni strategiche per registrare le diverse componenti e sfumature del suono.

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