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    Non dare forma, ma fare forma

    Sempre più spesso, considerando il disorientamento tanto identitario quanto operativo manifestato dalle nuove generazioni, vengono chiamate in causa le strutture e le metodologie formative, che andrebbero non tanto restaurate, ma ripensate radicalmente, con il contributo di tutti gli attori sociali e culturali.

    di Gian Piero Jacobelli

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    Gira e rigira, quando ci si pone il problema della rivoluzione culturale a cui stiamo assistendo quasi passivamente, subendone non si sa se il fascino o il fastidio – una rivoluzione che si incardina, da un lato, sulla travolgente diffusione delle piattaforme digitali e, dall’altro lato, sulla esigenza di garantire a tutti uguali opportunità, indipendentemente dalle caratteristiche di genere, di censo, di estrazione etnica e via dicendo – il discorso tende a focalizzarsi sulla importanza della leva formativa.

    Alla formazione, genericamente intesa, si vorrebbe, in altre parole, affidare l’arduo compito di sanare, quanto meno sul medio periodo, quello generazionale, le distorsioni che perdurano, anzi persistono negli attuali e prevalenti assetti sociali ed economici.

    Ma, proprio per il ruolo palingenetico che si tende ad attribuirle, in contrasto con i suoi assetti tradizionali che prevedevano piuttosto una funzione conservatrice, con riferimento ai canoni conoscitivi e comportamentali di cui doveva farsi veicolo e garanzia, non si può più parlare di una formazione convenzionalmente intesa come trasferimento di nozioni disciplinari e di orizzonti valoriali. 

    Al contrario, più che di una “formazione alla ripetizione” si avverte la urgente esigenza di una “formazione alla differenza”, nel senso di un approccio formativo “olistico”, in grado di porre a fattore comune tutte le diverse e molteplici componenti formative oggi disponibili a livello sia pubblico sia privato.

    Non si tratta, a nostro avviso, o non si tratta soltanto di restaurare metodi e programmi delle strutture scolastiche esistenti, nei loro diversi ordini e gradi, come pure si sente spesso autorevolmente affermare. Per altro, non c’è dubbio che qualcosa si debba fare anche da questo punto di vista, considerato lo stato confusionale in cui versano le attuali piattaforme formative, nel cui ambito sono venuti meno sia i principi della competenza sia quelli della reputazione.

    I primi, i principi della competenza, per l’affollarsi di operatori frequentemente tenuti ai confini di una stabilizzazione potenziale, ma sempre rinviata, nel quadro di una precarietà diffusa, che non consente alcuna valida crescita culturale. I secondi, i principi della reputazione, per l’arroganza e la sistematica prevaricazione degli altri attori formativi, dalla famiglia, sempre più intollerante di discipline culturali e comportamentali, alle stesse strutture amministrative, investite e condizionate da logiche aziendalistiche, necessarie al governo del sistema solo se e quando non indebitamente prevaricanti.

    Si tratta piuttosto si tenere presente la complessità della società contemporanea, in cui si moltiplicano i protagonisti interessati a rendere quanto più funzionali possibile le risorse progettuali e produttive, interpretando questo pure comprensibile interesse in maniera tale da non rimuovere, ma valorizzare le istanze vocazionali dei giovani che si affacciano alla loro vita professionale e produttiva.

    In altre parole, si può ritenere, in una ottica “immunitaria”, secondo cui a ogni crisi tende a corrispondere un riassetto inedito dei fattori in gioco, che sia possibile superare la innaturale e inopportuna contrapposizione tra informazione e formazione, nella prospettiva di quella che un semiologo pionieristico come Jurij Lotman definiva “semiosfera”: un sistema aperto e dinamico, in cui vengono meno, per virtù tecnologica (la cosiddetta convergenza digitale), ma anche antropologica (la globalizzazione della mobilità e della comunicazione), i vincoli della dipartimentalizzazione sia del sapere sia del fare.

    In questa dimensione confluente e integrata le varie agenzie della formazione sono chiamate a collaborare non più in maniera sequenziale – prima la famiglia, poi la scuola, infine l’impresa e via dicendo – ma in maniera concomitante e connettiva. Superando la classica (edipica) idea delle tre età dell’essere umano in una prospettiva che potremmo definire “intenzionante”, nel senso di una preparazione alla vita in cui è la vita stessa, nella molteplicità delle sue implementazioni, a giocare uno specifico ruolo formativo.

    Quando ciò non avviene, o avviene in maniera recalcitrante e comunque insufficiente, il problema fondamentale diventa non più quello di riuscire ad affrontare operativamente le situazioni più innovative, ma quello di non riuscire a liberarsi delle vecchie impostazioni. 

    Qualcosa del genere, a proposito della capacità delle tradizionali strutture formative a risolvere o quanto meno ad avviare a soluzione le disparità pregiudizialmente insite in una società “categoriale” come quella in cui ancora viviamo, abbiamo letto nelle scorse settimane sulla nostra Home Page, in un incisivo  e argomentato articolo di tre studiosi e docenti neri di informatica, Fay-Cobb Payton, Lynette Yarger, Victor Mbarika.

    Vi si parlava delle difficoltà, da parte delle più importanti università statunitensi, a fare sì che alle parole seguano i fatti in materia di solidarietà, uguaglianza e maggiore inclusione nei confronti della minoranza nera: «La maggior parte dei tentativi di favorire la diversità nel nostro campo si sono concentrati sull’inserimento di più persone di diversa estrazione all’interno di pacchetti formativi già predisposti. Eppure l’articolazione rappresentativa resta ostinatamente bassa».

    In effetti, «i canali prefissati ignorano le realtà di razzismo, classismo e sessismo affrontate da coloro che sono storicamente esclusi dalle carriere tecnologiche». La indicazione che i tre autori traevano da questa considerazione, tutto sommato deprimente nonostante il loro personale successo, faceva riferimento alla stessa prospettiva di articolazione formativa su cui ci siamo soffermati: «A nostro parere, la risposta potrebbe essere un approccio ecosistemico in cui molte organizzazioni lavorano insieme per affrontare la scarsa rappresentatività delle diverse soggettività. L’ecosistema tecnologico dovrebbe coinvolgere scuole primarie e secondarie, istituti di istruzione superiore, aziende, organizzazioni non profit, agenzie governative e venture capitalist».

    Certo, non è facile che le organizzazioni scolastiche o quelle imprenditoriali cambino da un giorno all’altro il proprio modo di essere per diventare più e meglio inclusive, anche tenendo conto che la inclusività dovrebbe concernere non soltanto i percorsi prestabiliti della preparazione al lavoro, ma anche quelli della occasionale valorizzazione di diverse opportunità personali. Ma appare sempre più evidente che questo obiettivo non concerne tanto generiche istanze democratiche, ma una specifica e diffusa capacità di rispondere alle sfide di una civiltà come quella contemporanea, in cui non si può fare a meno di alcuna risorsa, economica, tecnologica, ma soprattutto culturale.

    Per concludere qualcosa che non può concludersi perché si trova appena agli inizi, ci pare di intravedere un nuovo modo di concepire la formazione: non più come un “dare forma”, che condannerebbe a un persistente anacronismo delle parole e delle cose, ma un “fare forma”, un mettere e mettersi insieme, per perseguire finalità se non nuove (chi può dirlo?) quanto meno innovative.

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