In una ricchissima mostra che il Museo Archeologico Nazionale di Napoli ha dedicato alle opere di Antonio Canova, è esposto il gruppo scultoreo delle Tre Grazie, la cui straordinaria suggestione parla anche di una vera e propria rivoluzione culturale e scientifica.
di Gian Piero Jacobelli 22-04-19
A volte, nel frenetico rincorrersi degli eventi che i media ci somministrano quotidianamente, succede davvero qualcosa. Un qualcosa che magari si nasconde nelle pieghe della tradizione, per cui non ce se ne rende subito conto.
Oggi vorremmo occuparci, appunto, di un evento quasi misconosciuto che, sia pure “in alta uniforme”, è avvenuto il 13 giugno 1812 nell’atelier romano di Antonio Canova (1757-1822), allora considerato il maggiore scultore italiano ed europeo: il vero erede dei celebri scultori greci, il maestro della forma, tra il classicismo settecentesco e il romanticismo ottocentesco.
Quel giorno, Canova ricevette una lettera da parte di Jacques-Marie Deschamps, il segretario particolare di Joséphine Beauharnais, da un paio di anni non più consorte dell’imperatore Napoleone, ma ancora molto influente a Parigi e con larghe disponibilità economiche.
Nella lettera, Deschamps, il quale si occupava della collezione d’arte conservata alla Malmaison, il castello acquistato e restaurato da Joséphine nel 1799, chiedeva a Canova di realizzare una scultura raffigurante le Tre Grazie, proprio mentre Napoleone iniziava la sua disastrosa campagna di Russia.
Delle Tre Grazie, che divennero una delle sculture più famose della civiltà moderna, esistono numerosi bozzetti in terracotta e in gesso, conservati a Possagno, presso il Museo Canova, da cui vennero ricavati due esemplari in marmo, molto simili, ma non identici: il primo, di cui si è detto, conservato presso il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo; il secondo, commissionato da John Russell, duca di Bedford, conservato nel londinese Victoria and Albert Museum.
Non è qui il caso di seguire le molte vicissitudini della realizzazione, del pagamento, del trasporto e della consegna dell’opera, in Francia e in Inghilterra, anche se ne scaturirebbe uno spaccato di storia culturale e artistica molto interessante perché in quegli anni tutto stava cambiando in Europa da un punto di vista sia politico, sia economico.
Resta però da motivare la decisione di parlarne in un contesto, come questo della nostra rivista, prevalentemente dedicato alla ricerca e alla innovazione scientifica e tecnologica. Si tratta di due a nostro avviso buoni motivi: uno connesso alla cronaca, l’altro alla storia.
Il motivo connesso alla cronaca consiste in una ricchissima mostra aperta dal 28 marzo al 30 giugno 2019 a Napoli, nel Museo Archeologico Nazionale: una ambientazione quanto mai idonea e opportuna, perché consente di cogliere immediatamente le fonti di ispirazione di Canova, insieme alle sue innovazioni canoniche.
Il motivo connesso alla storia consiste, come abbiamo già accennato, nella presenza in mostra di una delle sculture canoviane più celebrate, le Tre Grazie, appunto: proprio quelle che vennero commissionate a Canova da Joséphine Beauharnais e poi cedute all’imperatore di Russia Alessandro I, insieme al resto della collezione materna, dal principe Eugène Beauharnais, valoroso soldato, si dice, ma evidentemente più attratto dal denaro che dalla bellezza.
Il meraviglioso gruppo, circondato nei saloni del Museo napoletano da altre opere classiche e canoviane che ne illustrano le matrici creative, ci consente di capire in che senso si possa considerare epocale quella lettera di oltre due secoli fa.
In un affresco risalente alla seconda metà del secondo secolo d.C., conservato proprio nel Museo Archeologico Nazionale, le Tre Grazie – le tre Cariti, figlie di Zeus ed Eurinome e variamente interpretate come Bellezza, Amore, Piacere, o come Castità, Bellezza, Amore, o ancora come Pittura, Poesia, Musica – sono raffigurate nel tradizionale allineamento (le due laterali di faccia, la centrale di schiena, o viceversa) che verrà numerose volte replicato dalla statuaria antica e moderna, nonché dallo stesso Canova, in disegni e dipinti precedenti la scultura in questione.
Tuttavia, nel progettare il gruppo marmoreo promesso a Joséphine, Canova fece un “grande gesto”, stringendo le Tre Grazie in un intimo abbraccio che le lega insieme e che segnò o quanto meno rese manifesto l’inizio di una nuova temperie culturale concernente tanto l’arte quanto la scienza. In quel “grande gesto” si può intravedere il passaggio dalla cultura classica, in questo caso neoclassica, alla cultura romantica; da quello che Alexandre Koyré ha definito come il moderno “universo della precisione” per tornare quasi inaspettatamente a quello che lo stesso Koyré definiva come l’antico “mondo del pressappoco”.
Se, da un lato, il lato “umanistico”, Ugo Foscolo accompagnava e corroborava con i suoi versi il “grande gesto” di Canova, dall’altro lato, il lato scientifico e tecnologico, si stava infatti rapidamente affermando una nuova civiltà in movimento, fluida, dinamica, rischiosa teoricamente e operativamente.
Nel 1783 i Fratelli Montgolfier spinsero in cielo, ad Annonay e poi a Parigi, il primo aerostato, grazie alla leggerezza dell’aria calda. Negli stessi anni e negli stessi luoghi, Franz Anton Mesmer affascinava la borghesia e la aristocrazia parigina con le sue pratiche “mesmeriche”, ipnotiche, magnetiche e fluidiche. Ma, soprattutto, nel 1801, pochi anni prima del capolavoro canoviano, Alessandro Volta presentò la sua pila a Napoleone, certificando una volta per tutte che qualcosa stava cambiando non solo nelle conoscenze scientifiche, ma anche nelle prospettive tecnologiche.
Il mondo stava cambiando e proprio Canova lo rese intuitivamente evidente con le sue Tre Grazie che non disponevano più i valori emotivamente più profondi della tradizione occidentale nella sequenza chiara e distinta di una visione bidimensionale. Al contrario, si raccoglievano insieme, una di fronte, una di schiena, una di fianco, disarticolando la piattezza della vita in un vibrante e coinvolgente rito di conversazione (altra rizomatica invenzione illuministica), da cui scaturiva una inedita semiotica degli assi del mondo.
I criteri del dire e del fare, sino allora vincolati da una corrispondenza lineare con i sentimenti del bello e del buono, si avvolgono così in quel difforme coacervo di sensibilità e di emozioni in cui l’Ottocento stava cominciando il suo difficile e faticoso passaggio verso la seconda modernità, quella in cui ci si parla all’orecchio, quella in cui ci si guarda in tralice: quella civiltà “diagonale” che rappresenta l’ombra, il lato oscuro del positivismo e del progresso scientifico e tecnico.
Con il suo “grande gesto”, Canova affermò – e ancora ribadisce – che non c’è luce senza ombra e che, per quanto si cerchi di cristallizzare la Grande Catena dell’Essere in una convenzionale gerarchia epistemologica e tassonomica, a prevalere sarà sempre una enigmatica, compromettente, ma sollecitante intimità.