Affinché le criptovalute consumino meno energia sarà necessario reingegnerizzare il modo in cui operano le blockchain.
di Mike Orcutt
È uno dei capisaldi di qualunque argomentazione contro Bitcoin: “Certo, il fatto che elimini la necessità di ricorrere a un’autorità fidata che controlli ciascuna transazione è magnifico, ma sai quanta energia consuma?”
È vero. Bitcoin consuma quasi la stessa quantità di energia consumata dalla Nigeria in un intero anno. Anche Ethereum è ghiotta di elettroni, come la maggior parte delle criptovalute oggi in circolazione. Nonostante il dato sconcertante, però, vi sono ragioni per credere che una soluzione a questo problema potrebbe presto essere scoperta.
Prima di parlare della soluzione, però, parliamo dei “minatori” di Bitcoin. Tutti parlano delle blockchain, ma a dar vita a criptovalute come Bitcoin e Ethereum è la maniera in cui tutti i computer facenti parti delle loro reti appurano, di volta in volta, la veridicità di quanto dichiarato dalle blockchain. Per riuscirvi, questi computer sfruttano un algoritmo denominato “meccanismo di consenso”. In molti lo conosceranno come processo di “estrazione” (vedi “Benvenuti in un mondo Bitcoin”).
I minatori di criptovalute non sono solamente responsabili dello sblocco di nuove monete. Nel processo di estrazione, infatti, controllano il blockchain per assicurarsi che le monete non vengano spese in maniera fraudolenta, ed aggiungono nuove liste alle transazioni – i blocchi – alla catena. In questo secondo passaggio, pensato per garantire la blockchain dagli attacchi, il consumo di elettricità è proibitivo.
Complessivamente, i minatori devono trasformare ciascuna lista di transazioni recenti in una firma digitale che serva da dimostrazione della veridicità di queste informazioni. Tutti i minatori possono compiere questa operazione attraverso uno strumento crittografico che raccoglie qualunque input e lo tramuta in una tringa di caratteri apparentemente casuali. Il creatore di Bitcoin, Satoshi Nakamoto, ha però reso questa parte particolarmente complessa.
Nakamoto ha organizzato una competizione pensata per stabilire chi sia il primo a determinare una firma molto specifica sulla base di tre input: la firma del blocco precedente, la lista di nuove transazioni e un terzo numero a caso. Siccome i minatori non sono a conoscenza del terzo numero, sono costretti a generare ripetutamente delle firme digitali fino a quando la firma corretta non viene indovinata. Questo processo comporta un consumo energetico enorme e stabilisce la credibilità dell’account di uno specifico minatore.
Laddove questo metodo particolare metodo per il raggiungimento di un accordo – conosciuto come “proof of work” – è consolidato, non è il solo a esistere. Un crescente numero di tecnologhi sta esplorando soluzioni differenti, alcune delle quali si stanno già facendo strada fra le criptovalute meno note.
Quella che potrebbe soppiantare il metodo classico è conosciuta come “proof of stake”. A differenza del “proof of work”, che ricompensa i partecipanti per aver impegnato le proprie risorse informatiche, le blockchain che ricorrono al “proof of stake” selezionano le persone incaricate di portare a termine la validazione in base alla dimensione dei loro rispettivi depositi monetari – la loro “posta in gioco” (stake, appunto). Questo approccio è molto più efficiente dal punto di vista energetico, ma resta ancora da essere dimostrato su scala e necessita ancora di qualche accorgimento. Nonostante tutto, se tutto andrà come previsto, Ethereum dovrebbe presto adottare questo sistema, un risultato particolarmente importante, se consideriamo che il suo sviluppatore, Vitalik Buterin, ha descritto la definizione di un efficace algoritmo di consenso come “uno dei problemi più ardui nello sviluppo delle criptovalute”.
La realtà dei fatti è che, almeno per qualche tempo, potremmo ritrovarci bloccati con delle criptovalute energeticamente dispendiose. Nel frattempo, chissà che i loro sostenitori non vogliano investire parte del loro patrimonio digitale in fonti di energia rinnovabile.
(MO)