Per quanto possa suonare strano, anche del futuro si può fare storia: riesumando i numerosissimi esercizi speculativi, previsioni e utopie, che hanno attraversato la civiltà occidentale e che, in particolare alla metà del secolo scorso, hanno intravisto nel progresso tecnologico nuove opportunità, ma anche nuove e crescenti preoccupazioni.
Approfittando della pausa estiva, nonché delle “virali” limitazioni imposte alla mobilità, proseguiamo a rimestare vecchie carte in vecchi cassetti (si fa per dire, in quanto si tratta di libri, vecchi, ma sempre utili).
Dopo la Intelligenza Artificiale secondo il grande linguista e semiologo russo Jurij M. Lotman, di cui abbiamo parlato ieri, oggi vogliamo proporre alla attenzione dei lettori – almeno quelli che non si sono lasciati sedurre dalle sirene delle vacanze a rischio – una nuova trouvaille, questa volta più sintomatica che programmatica.
Qualcuno ricorderà, anche perché ne abbiamo già parlato in questa sede qualche mese fa, la passione futurologica scatenatasi alla fine degli anni Sessanta, a seguito dell’entusiasmo tecnologico che caratterizzò il dopoguerra e che andava ancora esente dalla “cultura del sospetto” in cui si preannunciavano le crisi socio-politiche ed energetico-economiche degli anni Settanta.
Allora la futurologia diventò dichiaratamente di moda: dichiaratamente perché si manifestava in numerose iniziative editoriali, giungendo a coinvolgere la pubblica opinione. Basterà ricordare la rivista Futuribles di Bertrand de Jouvenel in Francia, la rivista Futuribili di Pietro Ferraro in Italia e soprattutto le iniziative del Club di Roma di Aurelio Peccei.
Negli Stati Uniti già da qualche anno Ossip Flechtheim aveva coniato il termine futurology e Daniel Bell, con i suoi saggi sulla fine delle ideologie, sulla società postindustriale e sulle contraddizioni del capitalismo, animava Daedalus, la rivista della American Academy of Arts & Sciences.
A quella moda, ma anche a quella passione, che rispetto alla moda conserva un più autentico accento riflessivo, si riferisce il libretto che, emerso da qualche scaffale meno frequentato della nostra biblioteca, al futuro, appunto, si intitola: Perché vogliamo prevedere il futuro. Doveva trattarsi di una strenna, perché, a parte il riferimento all’editore – Edindustria Editoriale, la agenzia di comunicazione del Gruppo IRI – non presenta altre indicazioni editoriali; neppure l’anno di stampa che solo una rapida ricognizione delle indicazioni bibliografiche accluse consente di determinare nel 1970.
Solo due anni prima, nel 1968, noi stessi pubblicammo sulla rivista Civiltà delle Macchine un ampio saggio, forse il primo in Italia, in cui venivano riassunte e analizzate le attività e le metodologie futurologiche proposte sull’uno e sull’altro versante dell’Oceano Atlantico.
Ma non soltanto questo personale coinvolgimento attirò la nostra attenzione sul libretto in questione. A colpirci, rispetto alle tracce della euforica fiducia nella possibilità tecnologica di guidare i destini del mondo, è stato il saggio introduttivo di Nicola Abbagnano, uno dei più autorevoli filosofi di allora. Quel saggio filosofico faceva leva sul concetto di “progetto”, in cui si addensavano non poche perplessità, assai più in sintonia con le attuali preoccupazioni catastrofiste di quanto non appaiano i successivi interventi sulle “magnifiche sorti e progressive” della nostra civiltà tecnologicamente avanzata.
Scriveva Abbagnano in quel suo profetico intervento che «ogni progetto, una volta realizzato, ha una retroazione o feedback non solo nel campo nel quale è stato realizzato ma in campi vicini e lontani che tutti però concernono o coinvolgono un qualche interesse permanente dell’uomo. Molte volte questa retroazione negativa lede o disturba uno specifico interesse umano o lo stesso equilibrio del progetto generale della vita umana».
Abbagnano citava in proposito la crescente specializzazione delle ricerche scientifiche e la rapidissima industrializzazione che distrugge i valori tradizionali senza proporne di nuovi, tranne quelli del consumo vistoso, del successo a oltranza, di una competizione tanto conformista quanto angosciosa. In particolare criticava la convinzione, ancora assai diffusa, che la tecnologia possa risolvere gli stessi problemi che va creando: «La credenza che ogni problema fatto nascere da una nuova tecnologia possa essere risolto da una contro-tecnologia adeguata, appare oggi ottimisticamente ingenua agli spiriti più pensosi o più al corrente dei fatti. Il più delle volte una contro-tecnologia è un correttivo provvisorio e parziale, un riassetto della situazione precedente».
A riprova di questa affermazione ci si può soffermare sull’anonimo documento conclusivo del libretto in questione, in cui vengono prese in considerazione “cento occasioni del 2000”. Diamo dunque una occhiata a queste “cento occasioni”, dopo avere attraversato il Gotha della cultura mondiale a cavallo del secolo scorso. I nomi stessi testimoniano che del futuro ormai nessuno voleva o poteva fare a meno: Kenneth E. Boulding, Herbert George Wells, Louis Armand, Alfred North Whitehead, Herman Kahn, Anthony J. Wiener, Norbert Wiener, Dennis Gabor, Bertrand de Jouvenenl, Robert Jungk, Bertrand Russel, Karl Mannheim, Erich Fromm, Lewis Mumford, George P. Thompson, François Le Lionnais, Igor V. Bestuzhev-Lada, Daniel Bell.
Poiché queste “occasioni” sono tante e molte per la verità assai poco futuribili e piuttosto generiche – cosa si “prevede”, infatti, parlando di “nuovi veicoli aerei”, o “nuove fonti di energia per installazioni fisse”, o “controllo abbastanza efficace dell’appetito e del cibo”, o “apparecchi elettronici ed altri, a manutenzione gratuita e che durino molto”, o “trasporti non costosi fuori sedi stradali” – eviteremo di citarle tutte, limitandoci a segnalare, sulla scorta delle considerazioni di Abbagnano, quelle che oggi appaiono deprecabili e quelle che, cercando di ovviare ai danni provocati, di fatto peggiorano la situazione.
Nel primo caso – a parte “l’uso sempre più diffuso di reattori nucleari, quali fonti di energia”, o l’“uso di esplosivi nucleari per lavori di scavo e nelle miniere”, che rispondevano ad aspettative ormai largamente rimosse, o anche la esplicita attenzione per dispositivi bellici, sia missilistici, sia addirittura di “guerra morale biologica e chimica”, che rifletteva le tensioni crescenti della guerra fredda – sorprende il tono quasi propiziatorio degli interventi sulla vita e in particolare sulla vita umana.
Si accenna, infatti, alla “riduzione di tare ereditarie e difetti congeniti”, che sa molto di eugenetica, alla “ibernazione umana per brevi periodi (ore o giorni) a scopi medici”, alla “ibernazione umana per mesi e anni”, alle “nuove piante ed animali”, a “nuove medicine per condizionare l’umore”, alla “possibilità di scegliere il sesso del nascituro”; al “cibo e bevande sintetiche”, al contrastante “controllo abbastanza efficace dell’appetito e del peso”, a “nuove medicine per condizionare l’umore, la personalità, la sensibilità e l’immaginazione”, ai “sogni programmati”.
Insomma, un apparentemente irresponsabile entusiasmo per la ingegneria biologica, che raggiunge il culmine nei “nuovi metodi biologici e chimici per identificare, rintracciare, rendere inabili o molestare le persone, per scopi di polizia e militari”, o anche nelle “nuove tecniche, possibilmente penetranti, per la sorveglianza, l’ammonimento e il controllo delle persone e delle organizzazioni”. C’è da restare interdetti, al punto di chiedersi se la previsione serva a farla avverare o a scongiurarla.
Nel secondo caso, la cosiddetta “contro-tecnologia”, le perplessità si addensano intorno alla crescente consapevolezza dei danni ambientali, ma anche alla convinzione che sia facile porvi tecnologicamente riparo, come nel caso di “nuove tecniche per migliorare l’ambiente”, o di “nuove piante e animali”, o di “qualche controllo sul tempo atmosferico e sul clima”, o di “altri cambiamenti (permanenti o temporanei) dell’ambiente nel suo insieme”.
In conclusione, restano da segnalare le “tecniche nuove e relativamente efficaci contro le insurrezioni (e forse anche nuove tecniche rivoluzionarie)”, che la dicono lunga sugli ambigui rapporti intercorrenti tra tecnologia e poteri costituiti, allo scopo di influenzare non soltanto quanto si vuole prevedere, ma anche quanto non si vuole prevedere.
In questo senso, valutando sagacemente il futuro della futurologia, il sociologo e psicologo Gian Paolo Bonani concludeva il libretto con una considerazione che, dopo mezzo secolo, ci sentiamo di condividere, soprattutto nel punto interrogativo: «Non sono gli strumenti che ci mancano per andare avanti, ma la capacità di scegliere una strada che valga la pena di essere battuta. La futurologia, sviluppando metodi di ricerca sempre più perfezionati, può aiutare l’uomo a riorientare le scelte della sua civiltà o sarà solo il telescopio che prevede l’arrivo della nefasta cometa di Bayle?».
(gv)