La chiusura delle scuole a causa della pandemia continua a suscitare polemiche tra chi pensa che siano prevalenti i valori della salute e chi, invece, privilegia quelli della formazione: ma si tratta di una contrapposizione che non trova convincenti riscontri né nella salute, né nella formazione.
di Gian Piero Jacobelli
Quando le situazioni si fanno gravi, se non gravissime, emerge una perniciosa tendenza a radicalizzare le diverse posizioni, quasi che per affrontare le emergenze sia necessario farsi forte dei propri partiti presi. Per cui, proprio quando ci vorrebbe una più intrepida e confluente determinazione per cogliere e valorizzare nello sconcerto del momento i fattori che potrebbero indurre un auspicato cambiamento, si finisce per irrigidire le più convenzionali visioni del mondo, facendosi deboli della loro forza apparente.
Questo sommario preambolo si riferisce a una discussione, ma sarebbe meglio dire a una polemica, che risulta davvero sorprendente poiché tende a contrapporre valori entrambi essenziali tanto per la sopravvivenza quanto per una vita degna di essere vissuta.
In questione, come si è accennato, è la possibilità di perseguire congiuntamente gli obiettivi della salute e della formazione. Da un lato è difficile sottrarsi alla evidenza delle rilevazioni statistiche che riferiscono alla riapertura integrale delle scuole, a fine settembre, dopo la tornata elettorale, la ripresa rapida e particolarmente aggressiva dei contagi, con tutte le conseguenze del caso in materia di ricoveri e decessi. Dall’altro lato, come hanno osservato molti autorevoli commentatori, la chiusura delle scuole, con la conseguente sospensione della didattica in presenza, rischia di provocare danni permanenti a carico degli studenti meno favoriti e quindi al Paese nel suo complesso, che già soffre di tradizionali sperequazioni economiche e sociali.
Poiché si tratta di istanze essenziali, quella della salute e quella della formazione, la loro attuale contrapposizione non può venire risolta secondo una logica salomonica, ma andrebbe commisurata all’evolversi della situazione in un difficile e talvolta drammatico esercizio di contemperazione, che richiede di prescindere da astratte e spesso anacronistiche postulazioni ideologiche. Non a caso da più parti si sottolinea come le attuali difficoltà del sistema sanitario derivino, oltre che dalla scarsità delle risorse investite negli ultimi anni, da una forse conseguente, ma comunque eccessiva e fatalmente elitaria concentrazione territoriale. A seguito della critica situazione attuale, alla sanità pubblica si chiede, per quanto consentito dalle straordinarie possibilità oggi disponibili a livello nazionale ed europeo, di tornare a qualificarsi come un sistema diffuso sul territorio, dai medici di base ai presidi specialistici, più vicino alle necessità quotidiane delle persone che hanno bisogno di cure e di assistenza.
Poiché questo sistema diffuso richiede maggiori competenze mediche e infermieristiche, resta indispensabile che il rapporto con il sistema formativo diventi più efficiente e tempestivo, per alimentare adeguatamente le nuove reti sanitarie. In altre parole, una volta di più, da un punto di vista tanto teorico quanto pratico, salute e formazione devono andare di pari passo.
Anche per quanto concerne la scuola di ogni ordine e grado, senza trascurare le comprensibili preoccupazioni per le carenze formative in cui potrebbe incorrere una intera generazione a causa delle sospensioni e delle dislocazioni richieste dai rischi epidemiologici, non si può non sottolineare l’analoga esigenza di sollevare lo sguardo verso i nuovi orizzonti comportamentali e operativi che maturano nella società della mobilità e della comunicazione.
Se è vero che la scuola, nella sua consistenza procedurale e logistica, costituisce un presidio culturale e relazionale insostituibile, è anche vero che il mondo in cui viviamo e soprattutto in cui vivono le generazioni più giovani non è più quello di una volta, costretto nella pendolarità tra la dimensione pubblica e la dimensione privata, tra la casa e la scuola, vale a dire tra due ambiti in qualche modo metaforicamente concentrazionari.
Oggi il rapporto tra queste due dimensioni di coinvolgimento affettivo e conoscitivo si inquadra in una sorta di tessuto intermedio, composto da innumerevoli altre occasioni formative: in particolare dalle reti mediatiche che, se da un lato consentono impieghi evasivi e improduttivi del proprio tempo, dall’altro lato offrono innumerevoli finestre sul mondo, da cui viene spontaneo trarre, sia pure inconsapevolmente, qualche competente esperienza.
Nè i tratta soltanto di occasioni virtuali perché, quando si apre la porta di casa per recarsi a scuola e viceversa, la stessa città, intesa come struttura dinamica della convivenza, funge da matrice esperienziale. A questa funzione formativa della città, o in genere di un luogo abitato da persone che condividono gli stessi modelli sociali e culturali, il grande mediologo Marshall McLuhan ha dedicato una delle sue opere meno conosciute, forse perché più orientata sulle realtà di fatto che su quelle travolgenti profezie a cui ci hanno abituati i suoi libri più celebri, da La galassia Gutenberg a Gli strumenti del comunicare.
In questa opera, che risale all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso e si intitola La Città come Aula (Armando 1980), McLuhan rilevava come la conoscenza non si esaurisse nei suoi luoghi deputati, dove si vive per insegnare e imparare, ma sempre più si diffondesse nei luoghi dove si vive per vivere: “La società di oggi racchiude in sé una grande quantità di informazioni. La maggior parte di queste informazioni devono essere acquisite dagli abitanti di una particolare società affinché essi vi possano sopravvivere”. E argomentava facendo riferimento al “linguaggio” delle reti di comunicazioni radio e televisive; alla segnaletica stradale; ai sistemi di trasporto, quali automobili, treni, metropolitane, autobus, aerei; alla funzione dei fabbricati: “Come fate a distinguere, senza alcuna segnaletica, un ospedale, una scuola, un’università, un fabbricato per uffici, una fabbrica, una chiesa, una banca, un ufficio postale?”
In altre parole, le stesse strutture della convivenza costituiscono un impianto formativo permanente, certamente meno formale di quello scolastico, ma altrettanto necessario ad alimentare e supportare la possibilità di crescere intellettualmente e culturalmente.
Per contro, conclude McLuhan, “la città come aula si può invertire nell’aula come città. Sino dall’avvento dei media elettronici, quali il calcolatore, una quantità enorme di informazioni è disponibile ora nell’aula. In un’epoca in cui si cercano le risposte fuori dell’aula, le domande appartengono all’interno dell’aula; allo stesso modo, quando una esplosione d’informazione avviene fuori della classe, lo studio delle strutture dell’informazione o il riconoscimento dei modelli possono avere luogo all’interno della classe”.
In questa sempre più intensa reciprocità formativa risiede una possibile risposta alla sconcertante e aporetica contrapposizione tra salute e formazione. Certo, ci vorrà tempo e ci vorrà senso della misura e ci vorrà chiarezza di idee e di intenti, oltre a un sempre complicato consenso. Soprattutto ci vorrà molta pazienza. Anche se, come scriveva Lev Tolstoj, “la pazienza è aspettare. Non aspettare passivamente. Questa è pigrizia. Ma andare avanti quando il cammino è difficile e lento”
(gv)