Insistentemente, come in un interrogatorio ossessivo da libro giallo, si è chiesto alla scienza se l’embrione fosse o non fosse vivo. Una domanda che evidentemente, a parte la sua genericità e imprecisione, non era una domanda, dal momento che non specificava di quale vita si trattasse e, soprattutto, se questa vita, vera e presunta, rientrasse nei canoni di quella che, un poco letterariamente e un poco filosoficamente, si è tradizionalmente definita come vita umana.
di Gian Piero Jacobelli
Presa in mezzo, come forse non avveniva da quando, altrettanto impropriamente, si chiese agli scienziati atomici di farsi carico, in quanto scienziati, dei rischi di una catastrofe annunciata, la scienza è parsa traballare sotto i colpi di una responsabilità, non tanto eccessiva, quanto incongrua. Anche perché troppo spesso gli scienziati si sentono lusingati nel farsi tirare per la giacchetta. Come nel caso dei fisici atomici il problema non risiedeva nella scienza in quanto scienza, ma nella scienza in quanto madre della tecnologia e della tecnologia in quanto madre dell’azione, così nel caso attuale dei biologi il problema non risiede nella loro capacità di interpretare la realtà, ma nella loro capacità di trasformarla.
Il dibattito sulla legge relativa alla fecondazione assistita ha costituito da questo punto di vista un caso esemplare di quanto i discorsi “sulla” scienza, e anche alcuni “della” scienza, abbiano poco a che vedere con la scienza stessa, trasformata nel caso migliore in una cartina di tornasole di convinzioni e aspettative maturate in altri contesti conoscitivi e relazionali.
Chiedere alla scienza che cosa sia la vita non ha, infatti, alcun significato scientifico. La vita, parola inevitabilmente carica di tradizioni e di suggestioni di ogni genere, non è un concetto scientifico, in quanto appartiene, per riprendere una distinzione tipica della epistemologia contemporanea, alla “cornice” e non al “quadro”. La vita può essere consapevolezza di sé, capacità di agire, volontà di perpetuarsi e però questi non sono concetti scientifici, ma filosofici, etici e religiosi. Sono concetti relativi all’inizio e alla fine, alla cornice, mentre la scienza per definizione si colloca nel quadro che si apre tra l’inizio e la fine, per il fatto stesso di avere definito un inizio e una fine.
Non a caso, nel merito della questione embrionale, se si analizzano con occhio disincantato le tante prese di posizione scientifiche di questi ultimi mesi ci si rende facilmente conto che, sia pure in una maggiore disponibilità al confronto, anche gli scienziati rispondono in modi diversi, solo apparentemente scientifici, perché più “sottili”.
Alcuni dicono che si può parlare di embrione solo quando i due patrimoni genetici, materno e paterno, si sono fusi. Solo allora ci sarebbe una vita personale, che è quella da tutelare.
Alcuni dicono che non c’è vita personale finché l’embrione è in grado di dividersi in due, dando luogo a una crescita gemellare.
Alcuni dicono che non c’è vita personale finché non si è formata una struttura formale competente. Se l’abbozzo dell’embrione non è irreversibile e perdurano cellule totipotenti, manca ancora una specifica identità. Come di fronte a un mucchio di argilla non si può parlare di una casa, o un bosco non fa pensare a un mobile, così di fronte a un mucchio di cellule non si può parlare di un corpo.
Alcuni dicono che non c’è vita personale finché questa vita non è in grado di sopravvivere. Non c’è vita se l’embrione non è nella matrice e non può quindi alimentarsi e crescere.
Alcuni dicono che la vita umana è subordinata alla comparsa della futura struttura cerebrale nel primo aggregato di cellule.
E si potrebbe continuare ulteriormente, proprio perché la scienza è capace di tagliare in due e in dieci e in mille un capello, cioè, in questo caso, di analizzare le sequenze evolutive in frazioni spaziali e temporali sempre più minute.
Come si vede, quindi, anche gli scienziati non sono del tutto d’accordo: che la vita sia forza o forma o funzione o fine. Ma che la vita sia forza, o forma, o funzione o fine non deriva da una valutazione scientifica. Deriva invece da una assunzione pregiudiziale in merito alle cornici del discorso scientifico: se si chiede alla scienza dove si inizia la vita, si pone una domanda relativa alle cornici.
La domanda, per risultare compatibile al quadro scientifico, dovrebbe quindi essere riformulata in questi termini: se la vita è forma, quando c’è forma? Eccetera.
Per esempio, quello della comunicazione potrebbe oggi rappresentare il criterio più pertinente e condivisibile. L’embrione comunica con il suo patrimonio genetico, per costruire quell’essere umano e non un altro. Ma, anche in questo caso, bisogna fare attenzione agli eccessi interpretativi: anche un tumore lancia segnali e non è un uomo, anzi è il suo assassino. In altre parole, se le cornici senza quadri costituiscono delle postulazioni astratte, i quadri senza cornici risultano ambigui e irresponsabili.
Tra l’altro, proprio questo fascicolo fornisce non poche testimonianze di quanto sia importante sceverare nelle diverse politiche della scienza i fattori che appartengono alla scienza e quelli che, nel bene e nel male, derivano invece da convinzioni e condizionamenti che con la scienza non hanno poco a che fare, anzi che con la scienza entrano in conflitto proprio in quanto pretendono di strumentalizzarla.
A questo proposito, si legga con premeditazione il servizio dedicato agli scenari della ricerca in alcuni importanti paesi del mondo: scenari sostanzialmente diversi in ragione delle caratteristiche e delle esigenze di quei paesi: delle domande, appunto, che i diversi soggetti collettivi pongono alla scienza.
E si leggano le risorgenti diatribe sulle diverse fonti di energia, sui vantaggi e sui rischi che comportano, la cui valutazione muta di generazione in generazione a seconda delle sensibilità emergenti, ogni volta cercando nella scienza supporti e suffragi, anch’essi mutevoli non perché mutino le risposte scientifiche, ma perché mutano le domande non scientifiche.
E si legga, infine, il servizio dedicato ai farmaci che sembrano rispondere a qualificazioni razziali: un problema doppiamente delicato perché rievoca antichi fantasmi che sembravano ormai fugati, ma che stanno riproponendosi nei più diversi contesti e nelle più diverse situazioni.
Discutere, come si è fatto nella seconda metà del Novecento e come si sta tornando a fare, se quello delle razze sia un concetto culturale o un concetto scientifico, se cioè alla concomitanza di connotazioni corporee corrispondano anche configurazioni genetiche peculiari, porta acqua soltanto a un mulino ideologico e non scientifico. Se si chiede alla scienza cosa sia la razza, la scienza non risponde, perché la razza è un concetto che viene prima della scienza, la quale se mai è in grado di rispondere, in termini probabilistici e quindi continuamente da verificare, alla domanda sul rapporto tra peculiari configurazioni genetiche e il contesto antropologico in cui si vive.
Ancora una volta bisogna evitare che le responsabilità del diritto e dell’etica si nascondano dietro le responsabilità della scienza. Lo ha convincentemente affermato, a proposito dell’argomento da cui si è preso le mosse, Giovanni Felice Azzone, membro della Commissione di Bioetica dell’Accademia dei Lincei: “La scienza è certamente in grado di definire i tempi dello sviluppo dell’embrione e della graduale comparsa delle funzioni più importanti durante la vita embrionale, fetale e neonatale, ma non di indicare quale sia la relazione fra la comparsa di tali funzioni e l’uso del concetto di persona. La tesi della comparsa di una persona, sin dal momento della fecondazione di un ovulo da parte di uno spermatozoo, si fonda su argomenti di natura non scientifica, ma morale, filosofica e teologica (che risalgono ad Aristotele e a San Tommaso), argomenti difesi da alcuni filosofi e teologi e contestati da altri. E’ importante comunque osservare che la divergenza, nel caso dell’embrione così come nel caso dello stato vegetativo, è tutta interna al diritto, all’etica, alla fede e alla filosofia. Sono divergenze su cui gli scienziati non hanno niente da dire in quanto scienziati, e devono restare estranei”.
Forse non devono restare proprio estranei, perché anche gli scienziati possono essere filosofi, ma non in quanto scienziati. Se non per un argomento fondamentale, che è quello della congiunzione nella scienza di etica ed epistemologia: in altre parole, la scienza sa di essere un sapere sempre in cammino e sa che il proprio discorso è quello di non chiudere mai il discorso.
A patto, naturalmente, di non confondere la consapevolezza di non sapere con la presunzione del mistero. Che, ancora una volta, è un’altra cosa. Una cosa non scientifica. (g.p.j.)