Gli scienziati stanno cercando di districarsi tra una mole di ricerche che forniscono risultati contrastanti, ma non escludono più con sicurezza l’eventualità di un collasso del sistema oceanico nel breve periodo.
di James Temple
Un sabato mattina di dicembre del 2020, la RRS Discovery navigava in acque calme appena ad est della dorsale medio-atlantica, l’imponente catena montuosa sottomarina che va dall’Artico quasi all’Antartico. Il team a bordo della nave da ricerca, principalmente del National Oceanography Centre del Regno Unito, stava utilizzando un sistema di segnalazione acustica per innescare il rilascio di un cavo lungo circa 5 km dalla sua ancora di 1.800 kg sul fondo del mare.
Il responsabile scientifico della spedizione, Ben Moat, si avvicinò al ponte per individuare i primi galleggianti mentre spuntavano. I tecnici in coperta, muniti di elmetti e agganciati alle imbracature, riavvolsero il cavo. Ogni pochi minuti fermavano il verricello per scollegare i galleggianti e i sensori che misurano la salinità e la temperatura a varie profondità, dati utilizzati per calcolare la pressione, la velocità e il volume d’acqua che scorre.
Gli scienziati e i tecnici facevano parte di un team di ricerca internazionale, noto come RAPID, che sta raccogliendo letture da centinaia di sensori in più di una decina di ormeggi che punteggiano l’Atlantico all’incirca lungo il grado di latitudine 26,5 Nord che va dal Sahara occidentale al sud della Florida.
Stavano cercando indizi su una delle componenti più importanti del sistema climatico del pianeta: una rete di correnti oceaniche nota come Atlantic Meridional Overturning Circulation (AMOC). Il loro scopo era capire meglio come il riscaldamento globale stia modificando questo sistema e quanto potrebbe cambiarlo ancor più nei prossimi decenni, al punto da farlo crollare.
“Misurare questo sistema oceanico è fondamentale per comprendere il nostro clima”, afferma Moat. Dal meccanismo della circolazione atlantica dipendono in buona parte le sorti del mondo. L’AMOC corre per decine di migliaia di km dall’Oceano Antartico alla Groenlandia e ritorno, facendo ping-pong tra la costa sudoccidentale dell’Africa, gli Stati Uniti sudorientali e l’Europa occidentale.
Il sistema trasporta verso nord acqua calda, poco profonda e salata, convogliando in qualsiasi momento circa 1,2 milioni di gigawatt di energia termica attraverso la serie di ormeggi di RAPID. Ciò equivale a circa 160 volte la capacità energetica dell’intero sistema elettrico mondiale. Le correnti, che riscaldano l’aria circostante mentre viaggiano verso nord, sono un fattore importante (sebbene non l’unico) nel far sì che l’Europa occidentale sia più calda del Canada orientale, anche se si trovano all’incirca alla stessa latitudine.
Le acque diventano più fredde e dense man mano che raggiungono le alte latitudini, costringendo le correnti a tuffarsi per km sotto la superficie, diffondersi verso l’esterno e piegarsi indietro verso sud. L’affondamento dell’acqua in profondità nell’oceano aiuta ad alimentare il sistema. Il problema è che la circolazione atlantica sembra indebolirsi, trasportando meno acqua e calore.
A causa del cambiamento climatico, le calotte glaciali che si sciolgono stanno riversando acqua dolce nell’oceano alle latitudini più elevate e le acque di superficie trattengono una parte maggiore del loro calore. Le acque più calde e più fredde sono meno dense e quindi non inclini ad affondare, il che potrebbe minare una delle principali forze trainanti delle correnti.
In poche parole, le correnti influenzano gran parte del clima che conosciamo nell’emisfero settentrionale, in particolare intorno all’Atlantico costiero, ma anche fino alla Thailandia. Se le correnti cambiano, si modifica il clima, vanificando i modelli di temperatura e precipitazioni che hanno plasmato le nostre vite e le nostre società per secoli. Alcuni modelli climatici prevedono che le correnti diminuiranno fino al 45 per cento in questo secolo. La testimonianza dell’ultima era glaciale mostra che il sistema può venire meno o indebolirsi, in condizioni che il riscaldamento globale potrebbe replicare.
Sarebbe una “catastrofe globale”, afferma Stefan Rahmstorf del Potsdam Institute for Climate Impact Research. Si potrebbe congelare l’estremo nord dell’Europa, abbassando le temperature medie invernali di oltre 10 °C, con una riduzione della produzione agricola e del reddito in tutto il continente poiché gran parte dei terreni diventerebbe più arido. Il livello del mare potrebbe innalzarsi di 30 cm sulla costa orientale, allagando case e attività commerciali lungo la costa. I monsoni estivi su gran parte dell’Africa e dell’Asia potrebbero indebolirsi, aumentando le probabilità di siccità e carestie che potrebbero lasciare intere popolazioni senza cibo o acqua adeguati.
La maggior parte degli scienziati afferma che un crollo delle correnti è una possibilità remota in questo secolo, ma anche un forte rallentamento avrebbe impatti significativi, potenzialmente raffreddando e riducendo le precipitazioni intorno al Nord Atlantico e aumentandole in parte dei tropici. Il livello del mare potrebbe innalzarsi di circa un metro e mezzo al largo della costa sudorientale degli Stati Uniti.
Nonostante la posta in gioco, gli scienziati hanno solo una comprensione grossolana del comportamento delle correnti, dell’equilibrio delle forze che le guidano o della loro suscettibilità alle mutevoli condizioni climatiche. Ecco perché Moat e altri sono così ansiosi di osservare la circolazione atlantica. Ma gran parte di ciò che è stato scoperto finora è che la circolazione atlantica è più variabile, sconcertante e forse imprevedibile di quanto si pensasse.
La corrente della Florida
L’Atlantic Oceanographic and Meteorological Laboratory del NOAA è un edificio tozzo e bianco di cinque piani, circondato da palme, dislocato su Virginia Key, un’isola barriera a poche miglia dal centro di Miami. Il caldo strato superiore della circolazione atlantica, noto qui come la Florida Current, scorre oltre l’isola, stretto tra lo stato e le Bahamas. È un luogo ideale per osservare uno degli aspetti più potenti del sistema, perché la topografia dello Stretto della Florida confina le correnti, che altrimenti possono estendersi da decine a centinaia di km. (La Florida Current fa parte della Gulf Stream, un tratto della circolazione atlantica che costeggia gli Stati Uniti sudorientali prima di tagliare l’oceano verso l’Europa).
Gli scienziati del NOAA hanno monitorato lo Stretto della Florida a una latitudine di circa 27° Nord quasi ininterrottamente dal 1982, in gran parte sfruttando i cavi telefonici sottomarini. Le linee telefoniche ormai defunte lungo il fondo del mare forniscono un modo economico e discreto di osservare la circolazione atlantica.
L’acqua di mare che passa crea una tensione lungo i lati dei cavi, che i ricercatori del NOAA hanno scoperto di poter misurare in modo affidabile con letture quotidiane da strumenti installati in una struttura sull’isola di Grand Bahama. Con un’attenta calibrazione, sono in grado di tradurre quelle misurazioni in stime di quanta acqua scorre attraverso quella linea di latitudine. (Si veda figura 1)
Nel frattempo, William Johns e altri oceanografi della Rosenstiel School of Marine and Atmospheric Science dell’Università di Miami, situata di fronte alla strada rialzata che porta al laboratorio NOAA, hanno utilizzato ormeggi dotati di sensori e altri strumenti per studiare le correnti a est delle Bahamas dagli anni 1980 e hanno osservato sia la fredda e profonda corrente di confine che scorre verso sud sia un tratto del caldo lembo verso nord che si biforca e scorre intorno alle isole.
Queste iniziative hanno lo scopo di migliorare la comprensione scientifica del funzionamento degli oceani e dell’interazione con il clima, afferma Molly Baringer, vicedirettore del laboratorio NOAA. Ma le registrazioni storiche hanno assunto un’importanza maggiore man mano che sono cresciute le preoccupazioni sugli effetti che il riscaldamento globale potrebbe avere sulla circolazione atlantica e l’impatto che potrebbe avere, a sua volta, sul clima.
Nel corso degli anni 1990, c’è stato un numero crescente di altri tentativi di misurare parti delle correnti, utilizzando brevi tratti di ormeggi ancorati, galleggianti alla deriva, osservazioni a bordo delle navi e altri mezzi. Ma gli oceanografi si sono resi conto che queste osservazioni episodiche non erano sufficienti per comprendere il comportamento globale del sistema. Avevano bisogno di modi per monitorare continuamente le correnti attraverso l’oceano al fine di distinguere, tra le altre cose, le fluttuazioni a breve termine dalle tendenze a lungo termine.
Il National Oceanography Centre del Regno Unito ha inaugurato RAPID nel 2004 per fare proprio questo, prendendo in considerazione i cavi che attraversano l’Atlantico. Era logico collaborare anche con il NOAA e i gruppi di ricerca dell’Università di Miami, sfruttando i tentativi di monitoraggio in corso.
Moat afferma che i ricercatori stanno cercando di far luce su più variabili: le correnti, il calore erogato, il carbonio assorbito dall’aria, l’armonizzazione tra i rami sud e nord, l’influenza dei venti locali sul sistema e il possibile rallentamento della circolazione atlantica rispetto alla velocità prevista dai modelli climatici.
In mare aperto
In una giornata di sole all’inizio di novembre, ho seguito un paio di ricercatori della NOAA lungo un molo sul bordo sud-orientale del campus della Rosenstiel School of Marine and Atmospheric Science. Siamo saliti sul FG Walton Smith, un catamarano di 30 metri con scafi verde scuro e una tuga bianca, di proprietà dell’Università di Miami. Circa ogni trimestre, almeno in epoca pre-pandemia, i ricercatori di entrambe le istituzioni sono saliti a bordo della nave per rapidi viaggi di 30 ore tra andata e ritorno alle Bahamas.
Grazie a un telaio ad A e un argano a poppa calano i cosiddetti CTD (un carosello di tubi che catturano campioni d’acqua, oltre a sensori che misurano temperatura, pressione, saturazione di ossigeno e altre proprietà dell’acqua) nelle acque in nove stazioni lungo la strada, vicino alla linea del vecchio cavo telefonico. (Si vedano figura 2 e 3)
Denis Volkov, uno dei principali ricercatori del progetto di monitoraggio della NOAA, spiega che questi viaggi, insieme a escursioni più frequenti su navi più piccole, consentono ai ricercatori di determinare quanto calore e sale si muovono attraverso lo stretto, la velocità delle correnti al variare della profondità, l’origine dell’acqua in movimento e come le correnti stanno influenzando i relativi livelli del mare lungo le coste della Florida e delle Bahamas.
Separatamente, le squadre di ricerca di solito intraprendono viaggi più lunghi ogni 18 mesi, per rimuovere e sostituire i sensori da tre o quattro ormeggi sul lato orientale delle Bahamas. Le loro controparti del Regno Unito fanno lo stesso lavoro sul lato orientale dell’oceano e lungo la dorsale atlantica. Altri gruppi hanno creato serie di ormeggi in diverse parti dell’Atlantico per capire meglio come funzionano i vari componenti, i collegamenti del sistema e se i cambiamenti in una parte si propagano ovunque.
Susan Lozier, oceanografa presso il Georgia Institute of Technology, è a capo di un’iniziativa internazionale nota come OSNAP, risalente al 2014, che si è collegata ai cavi che attraversano il Mare del Labrador e il confine sud-orientale della Groenlandia fino alla costa della Scozia. Lo scopo della ricerca internazionale era quella di “cercare nelle acque profonde una comprensione migliore dei meccanismi che guidano il cambiamento nell’AMOC”, dice Lozier. “Finora”, continua, “ciò che i programmi di monitoraggio hanno scoperto è che la circolazione atlantica è più variabile di quanto si credesse in precedenza”.
La sua forza e velocità variano notevolmente di mese in mese, di anno in anno e di regione in regione. La maggior parte degli sprofondamenti in acque profonde nel Nord Atlantico sembra avvenire non nel Mare del Labrador, come a lungo creduto, ma piuttosto nei bacini a est della Groenlandia. Le diramazioni che scorrono verso nord e verso sud operano in modo più indipendente di quanto si pensasse. I modelli di vento locali sembrano esercitare un ruolo più influente del previsto e alcuni risultati sono semplicemente sconcertanti.
È molto probabile che la circolazione atlantica si sia indebolita. Gli studi di Rahmstorf dell’Istituto di Potsdam e altri hanno concluso che è circa il 15 per cento più lenta rispetto alla metà del XX secolo e potrebbe avere toccato il suo punto più basso negli ultimi 1.000 anni. Entrambi i risultati si basano, in parte, su ricostruzioni a lungo termine del suo comportamento utilizzando dati come le temperature dell’Oceano Atlantico e la dimensione dei granelli sedimentali sul fondo dell’oceano, che possono riflettere i cambiamenti nelle correnti marine profonde.
C’è anche un “sostanziale accordo” nei modelli sul fatto che le correnti continueranno a indebolirsi in questo secolo se le emissioni di gas serra continueranno, anche se c’è incertezza sullo stato in cui si trova il sistema al momento e se le osservazioni dirette si stanno allineando con i modelli. I dati degli ormeggi RAPID hanno mostrato un generale indebolimento della circolazione atlantica dal 2004 al 2012, con un improvviso calo del 30 per cento dal 2009 al 2010.
Si è trattato probabilmente di un importante contributo a un inverno particolarmente freddo nell’Europa nord-occidentale nel 2012 e potrebbe spiegare in parte il rapido innalzamento del livello del mare in quel periodo lungo la costa nord-orientale degli Stati Uniti, che ha raggiunto circa i 13 centimetri intorno a New York. Il rallentamento è stato di un ordine di grandezza maggiore di quanto previsto dai modelli climatici globali.
Le correnti hanno avuto un leggero rimbalzo negli anni successivi, ma la forza della circolazione è ancora al di sotto del punto in cui si trovava quando sono iniziate le misurazioni. In effetti, è diminuita anche più di quanto previsto dai modelli di cambiamento climatico. Alcuni scienziati dicono che i dati suggeriscono che il sistema ha già assunto una configurazione di debolezza sistemica. Altri sostengono che un’oscillazione così accentuata sia un’indicazione di quanto le correnti oceaniche possano variare in un decennio, invece di un chiaro risultato legato al riscaldamento globale.
“Non possiamo stabilire al 100 per cento se si tratta di una tendenza a lungo termine, per esempio legata al cambiamento climatico, o di un’oscillazione che può avvenire naturalmente”, ha detto Johns durante un’intervista nel suo ufficio che si affaccia sullo stretto della Florida.
Un’ulteriore elemento di incertezza è che, secondo i risultati del NOAA, la corrente della Florida che scorre sullo sfondo è diminuita solo di una piccola quantità dal 1982 e non in modo statisticamente significativo. Il dato fa pensare, perché quel flusso potente e concentrato è “il luogo in cui ci si aspetterebbe” di vedere una tendenza all’indebolimento secondo i modelli climatici, afferma Johns. A suo parere, ci vorrà semplicemente più tempo, da anni a decenni, prima che le correnti rivelino chiaramente come il cambiamento climatico le sta influenzando.
I segnali di un collasso
Il motivo per cui gli scienziati temono che la circolazione atlantica possa indebolirsi drasticamente è che lo ha fatto ripetutamente nel lontano passato. Quasi 13.000 anni fa, quando la Terra stava emergendo dall’ultima era glaciale, il clima in tutta la regione del Nord Atlantico iniziò improvvisamente a raffreddarsi. Le temperature tornarono a condizioni quasi glaciali per un periodo di oltre 1.000 anni noto come Younger Dryas, dal nome di un fiore di campo presente nell’Europa in quell’epoca.
La teoria principale su ciò che l’ha innescata riguarda il Laurentide Ice Sheet, che si estendeva per milioni di km quadrati in tutto il Nord America. Con l’aumento delle temperature, si è sciolto rapidamente, versando acqua fredda glaciale nell’oceano attraverso il fiume Mississippi. Ad un certo punto, il ghiaccio ai lati di un enorme lago sul bordo meridionale del ghiacciaio potrebbe aver ceduto, scatenando un’alluvione che probabilmente ha deviato il drenaggio verso il fiume San Lorenzo e avrebbe portato acqua dolce nell’Atlantico settentrionale attraverso l’odierno Quebec.
Il massiccio afflusso di acqua dolce potrebbe aver ridotto la salinità e la densità dell’acqua superficiale abbastanza da minare i meccanismi che guidano la circolazione atlantica alla sua origine, capovolgendola o indebolendola, afferma Jean Lynch-Stieglitz, un paleoclimatologo del Georgia Institute of Technology. Alla fine degli anni 1980, alcuni scienziati hanno iniziato a chiedersi se gli effetti del riscaldamento globale fossero in grado di fermare le correnti tanto quanto probabilmente ha fatto lo scioglimento del Laurentide, determinando un cambiamento climatico più brusco di quanto i ricercatori abbiano finora ipotizzato.
Per anni, l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite ha definito un arresto della circolazione atlantica in questo secolo “molto improbabile”, con una probabilità oscillante tra lo 0 e il 10 per cento. Ma come notano diversi studi, i modelli climatici hanno pregiudizi che potrebbero sopravvalutare la stabilità della corrente, in parte perché non incorporano l’aumento dell’acqua di disgelo dalle calotte glaciali della Groenlandia.
L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato ad agosto, declassa l’affermazione che un collasso non si verificherà prima del 2100 a “fiducia media”, citando a supporto le recenti scoperte di una coppia di scienziati dell’Università di Copenaghen. I ricercatori, Johannes Lohmann e Peter Ditlevsen, hanno ipotizzato numerosi scenari su un modello sviluppato all’università, approfondendo i diversi aspetti di tassi e tempi di scioglimento delle calotte glaciali della Groenlandia.
La concezione generale di un punto di svolta è che esiste una soglia fisica fissa oltre la quale il sistema cambia stato. I due scienziati hanno scoperto che un fenomeno meno noto, il cosiddetto punto di svolta indotto dalla velocità, innescato da un improvviso aumento della velocità di cambiamento del sistema, potrebbe anche fermare le correnti. In altre parole, troppi cambiamenti che si verificano troppo velocemente potrebbero causare un collasso del sistema.
Secondo lo studio, pubblicato a marzo nei Proceedings of the National Academy of Sciences, la circolazione atlantica potrebbe essere soggetta a questo fenomeno se l’acqua che scorre dalle calotte glaciali aumenta abbastanza rapidamente. Queste “dinamiche caotiche” significano che “forse non possiamo aspettarci, anche se i nostri modelli miglioreranno molto, di essere in grado di prevedere con sicurezza al 100 per cento se un tale elemento del sistema climatico entrerà in un altro stato o meno”, afferma Lohmann.
Un articolo di agosto di un altro ricercatore ha confermato queste preoccupazioni, concludendo che le correnti potrebbero essere più vicine del previsto al punto di non ritorno. Gli scienziati hanno trovato segni premonitori rivelatori di un crollo nei modelli e nelle registrazioni geologiche dell’ultima era glaciale, ha scritto l’autore, Niklas Boers, professore di modellazione del sistema terrestre della Technical University di Monaco e ricercatore presso l’ Institute for Climate Impact Research di Potsdam.
I segnali includono la diminuzione delle temperature e della salinità della superficie del mare nell’Atlantico settentrionale, un “accumulo” di salinità nell’Atlantico meridionale e un caratteristico cambiamento nei modelli attuali noto come “rallentamento critico”. Boers ha trovato questi segnali in otto diversi record, suggerendo “una quasi completa perdita di stabilità. Nel corso del secolo scorso, l’AMOC potrebbe essersi evoluto da condizioni relativamente stabili a un punto vicino a una transizione critica”.
Ma quanto vicino? In una e-mail, Boers ha affermato che rimane difficile definire la soglia in termini di una specifica temperatura o tempo globale, dati i numerosi livelli di incertezza. “L’unica cosa che possiamo dire è che nel corso del secolo scorso l’AMOC si è spostato verso il suo punto critico (cosa non prevista da molti)”, ha scritto in una e-mail. “E che con ogni tonnellata in più di gas serra emessi, probabilmente lo spingeremo oltre”.
Hollywood contro la realtà
Quindi cosa succederà se la circolazione atlantica crolla? The Day After Tomorrow, il popolare film catastrofico del 2004 in cui un brusco arresto delle correnti congela l’emisfero settentrionale per alcuni giorni da incubo, è una selvaggia esagerazione hollywoodiana. I cambiamenti apportati se la rete delle correnti oceaniche collassasse si svilupperebbero nel corso di anni o decenni, non di giorni, e non c’è motivo di aspettarsi che gli tsunami inondino Manhattan o che il ghiaccio soffochi la città. Ma un arresto porterebbe il sistema climatico globale in uno stato fondamentalmente diverso, con conseguenze alquanto imprevedibili in gran parte del pianeta.
Gran parte dell’Europa potrebbe trasformarsi in un mondo completamente diverso, secondo uno studio condotto da ricercatori del Met Office Hadley Centre nel Regno Unito, che ha analizzato da vicino gli effetti su questo continente utilizzando un modello climatico ad alta risoluzione. Entro 50-80 anni dopo una massiccia infusione di acqua dolce che interrompe la circolazione atlantica, le temperature della superficie del mare scendono fino a 15 °C nel mare di Barents e in quello di Labrador Seas e da 2 a 10 °C in gran parte del resto del Nord Atlantico.
Il ghiaccio marino si sposterebbe sempre più a sud, raggiungendo la punta settentrionale del Regno Unito alla fine dell’inverno. Il continente sperimenterebbe anche un ampio raffreddamento. Le tempeste invernali si intensificherebbero di forza e frequenza. In media, la maggior parte dell’Europa diventerebbe più secca, a parte il Mediterraneo durante l’estate. Ma la maggior parte delle precipitazioni arriverebbero sotto forma di neve.
Date queste condizioni più fredde e secche, il deflusso superficiale, i flussi dei fiumi e la crescita delle piante diminuirebbero. Il fiume Garonna nel sud della Francia trasporterebbe il 30 per cento in meno di acqua durante i periodi di picco invernale. La crescita nelle foreste di aghi del Nord Europa rallenterebbe fino al 50 per cento. La produzione agricola “diminuirebbe drasticamente” in Spagna, Francia, Germania, Danimarca, Regno Unito, Polonia e Ucraina.
Laura Jackson, l’autrice principale dello studio, sottolinea che si tratta di un modello “idealizzato”, che utilizza una grande quantità di acqua dolce per arrestare rapidamente la circolazione atlantica e accorciare la durata degli esperimenti. “Uno scenario più realistico, o un modello diverso, potrebbe mostrare diverse grandezze di cambiamento”, ha detto in una e-mail. Tuttavia, altri studi che guardano oltre l’Europa hanno concluso che un collasso o un significativo indebolimento della circolazione atlantica avrebbe effetti su larga scala su gran parte del mondo.
Alcuni modelli ipotizzano che anche parti dell’Asia e del Nord America potrebbero diventare più fredde. Il rallentamento delle correnti potrebbe interrompere la fornitura di nutrienti cruciali, devastando alcune popolazioni ittiche e alterando in altro modo gli ecosistemi marini.
Mentre la Corrente del Golfo sprofonda e perde forza, i livelli degli oceani potrebbero aumentare rapidamente da 20 a 30 cm lungo gli Stati Uniti sudorientali. La fascia delle piogge tropicali potrebbe spostarsi verso sud, indebolendo gli afflussi di pioggia in parti dell’Africa e dell’Asia e aumentando i monsoni nell’emisfero australe.
Questo rallentamento potrebbe agire in controtendenza al cambiamento climatico, mitigando in una certa misura il riscaldamento che altrimenti si verificherebbe. Ma il modo in cui queste forze in competizione si bilanciano nel complesso e nel tempo dipenderebbe da più livelli di incertezza sovrapposti: l’indebolimento o il collasso del sistema, la quantità minore di anidride carbonica assorbita e quanto diventa più caldo il pianeta.
L’oceano è vitale
Il potenziale di un brusco rallentamento o collasso dell’AMOC solleva interrogativi difficili. Quanto dovremmo essere preoccupati per le possibilità molto basse, ma con conseguenze molto alte, di un arresto delle correnti in questo secolo? Come possiamo valutare correttamente i rischi e intraprendere azioni appropriate con così tanta incertezza scientifica? Fino a che punto i dibattiti politici o le iniziative per il clima di oggi dovrebbero essere modellati dal pericolo di eventi che potrebbero non verificarsi fino al 2100 o 2200, se mai si verificheranno?
Alcuni che studiano l’AMOC credono che le persone, e la stampa in particolare, siano eccessivamente ossessionate dallo scenario della catastrofe. “Non abbiamo bisogno di alcun pericolo nel lontano futuro per sottolineare i rischi del cambiamento climatico: ci sono molte gravi conseguenze che sono già presenti”, spiega Lozier. “Amo l’AMOC e l’ho studiato da sempre, ma dovremmo davvero preoccuparci del riscaldamento degli oceani, dell’innalzamento del livello del mare, dell’acidificazione degli oceani, degli uragani. Queste sono le cose che stanno accadendo”.
Quando ho incontrato Baringer, su un tavolo da picnic fuori dal laboratorio della NOAA per rispettare i protocolli covid, le ho chiesto quanto fosse preoccupata per i modelli climatici che prevedono un forte rallentamento o un possibile collasso della circolazione atlantica. La dirigente mi ha detto che non si “preoccupa così tanto” al riguardo.
Ciò è in parte dovuto al fatto che pensa che sia difficile spiegare adeguatamente tutti i feedback in un sistema così complesso e approssimativamente compreso, e in parte perché, come Lozier, pensa che ci siano preoccupazioni climatiche più urgenti. Ha elencato l’acidificazione degli oceani, la siccità, gli incendi e il troppo sottovalutato innalzamento del livello del mare.
Allora perché, ho chiesto, è così importante studiare la circolazione atlantica? “Non mi piace questa domanda”, ha detto, “perché è un po’ come chiedere: perché studiamo l’oceanografia in generale? “L’oceano è importante: trasporta un’enorme quantità di calore, sequestra il carbonio, fa circolare i nutrienti. Se non avessimo la circolazione oceanica o la risalita, non ci sarebbero pesci. L’intero oceano è importante e l’AMOC, la grande circolazione, è una parte importante del ruolo dell’oceano”.
(rp)