Gli scienziati non sanno quale sia il punto di non ritorno, né quanto ci siamo vicini, ma superarlo sarebbe “assolutamente catastrofico”.
di James Temple
Con gli incendi scoppiati quest’anno nell’Amazzonia brasiliana, alcuni provocati da agricoltori incoraggiati dalla retorica e dalle politiche del presidente di estrema destra Jair Bolsonaro, sono riemerse tra i media descrizioni di scenari catastrofici connessi alla morte della foresta Amazzonica.
Oltre un certo livello di deforestazione, la più grande foresta pluviale del mondo potrebbe raggiungere un punto di non ritorno, con ripercussioni a spirale che trasformerebbero gran parte della foresta in una savana. La massiccia spugna di gas serra, che trattiene circa il 17% dell’anidride carbonica del mondo intrappolata nella propria vegetazione, ne diverrebbe improvvisamente una fonte importante. Bene, gli scienziati non possono dire esattamente. Alcuni modelli mostrano il fenomeno, altri no.
Si tratterebbe di un’immane catastrofe, ma quanto è realistica questa prospettiva? Laddove alcuni ricercatori rilevano tra i dati un punto di non ritorno, oltre il quale il processo proseguirebbe da solo anche senza l’impulso delle forze che lo hanno generato, altri vedono solo un deterioramento progressivo che può essere fermato in qualunque momento. Secondo altri studi ancora, un tale fenomeno trasformerebbe la foresta pluviale in una foresta stagionale piuttosto che in una savana.
Cosa possiamo fare di fronte a tanta incertezza scientifica? Come nel caso di altri punti di non ritorno climatici, sarebbe il caso di errare in direzione di un eccesso di cautela. “Anche si trattasse di una possibilità remota, non possiamo permetterci di ignorare la possibilità”, dichiara Jonathan Foley, direttore esecutivo di Project Drawdown, un gruppo di ricerca dedicato alla decarbonizzazione. “Sarebbe assolutamente catastrofico per il ciclo del carbonio, il ciclo dell’acqua, il clima e la biodiversità della Terra, per non parlare degli esseri umani.”
L’Amazzonia produce circa la metà delle proprie precipitazioni, riciclando continuamente l’umidità della foresta pluviale attraverso l’evaporazione e la traspirazione mentre l’aria si muove attraverso il bacino. Con il restringersi della foresta, si osserva una diminuzione delle piogge, che porta alla morte della vegetazione in un circolo vizioso che termina con grandi porzioni di foreste che si trasformano in pianure erbose, in un processo noto come “savanificazione”.
Secondo il rapporto sul clima pubblicato dall’ONU nel 2014, i soli cambiamenti climatici non potrebbero condurre alla completa perdita della foresta Amazzonica già nel nostro secolo. L’associazione, però, con gravi siccità, incendi e cambiamenti nell’utilizzo del suolo, come il taglio e la messa a fuoco delle foreste a favore del pascolo e dell’agricoltura, “porterebbe gran parte della foresta amazzonica a trasformarsi in una serie di ecosistemi meno ricchi, adattati a siccità e fuoco”. La capacità della foresta di rimuovere anidride carbonica dall’atmosfera verrebbe ridotta di conseguenza.
Tutto ciò sta già accadendo. Gravi siccità hanno colpito la zona nel 2005, 2010 e 2015. Secondo uno studio del 2007, la perdita del 40% della foresta scatenerebbe una ridurre delle precipitazioni e il prolungamento della stagione secca nelle principali regioni dell’Amazzonia, trasformandole in pianure erbose dove pochi alberi saprebbero sopravvivere. Secondo uno studio più recente, però, scritto dal prominente specialista brasiliano del clima Carlos Nobre, un grado di deforestazione tra il 20% e il 25% sarebbe sufficiente ad innescare tali cambiamenti.
Ad oggi, è andato perduto almeno il 17% dell’Amazzonia, calcola Thomas Lovejoy, coautore dello studio e professore della George Mason University. Potremmo dunque essere ad una decina di milioni di ettari dal punto critico, il 3% rimanente.
Foto: AP Photo/Victor R. Caivano