Richieste minime per fare incontrare politica e Università nel nostro paese. Una proposta in sette punti cardinali.
Ricordarsi che l’Università esiste.
Nei dibattiti dell’ultima campagna elettorale, spesso non è neanche saltata fuori la parola. è un lapsus tipico di un sistema politico strutturalmente arretrato sotto due lenti di osservazione: una visione “divisionistica” dello sviluppo culturale del Paese e la difficoltà tipica della politica italiana nel parlare al futuro.
La necessità di affrontare continue emergenze sembra quasi recidere ogni capacità di progettazione e programmazione. Di fatto, è difficile risparmiare la nostra classe politica dall’accusa di una sostanziale incuria nei confronti dell’Università, sia in termini di effettivo investimento economico in formazione e ricerca per il rilancio della competitività del Paese, sia di politiche strategiche di gestione del cambiamento negli atenei e nella società italiana.
Rovesciare l’atteggiamento di incuria.
Tematizzare l’Università è il modo teoricamente più semplice per i politici di occuparsi dei giovani: ciò a partire dalla volontà di affrontare questioni scottanti quali la mutata esperienza del lavoro, destinata inevitabilmente a incidere sullo stesso sistema di aspettative che i giovani nutrono verso la formazione. Mentre sappiamo che non c’è segnale più eloquente del declino di una società – e delle sue classi dirigenti – dell’incuria per le nuove generazioni e per il loro futuro, a partire dall’effettivo investimento (non solo economico) su politiche formative avanzate e moderne.
Invece, il sistema politico italiano parla quasi maniacalmente agli adulti e agli anziani, forse perché ha sentito dire che questi ultimi sono in crescita demografica, o forse perché costituiscono la platea tipica della tv generalista, unico medium che i politici “stravedono”. Nessuno ricorda, però, che i voti dei giovani sono decisivi – soprattutto oggi – e che essi, al di là del puro dato quantitativo, hanno un elevato potere di rappresentazione pubblica. Fanno opinione.
“Capire” la centralità della ricerca universitaria e comunque pubblica.
Le fonti della prosperità di una nazione rimandano ormai a dimensioni immateriali: la diffusione della conoscenza “pregiata”, i brevetti, l’innovazione tecnologica, la competitività sui mercati. Come non capire che tutto questo ha bisogno di una diversa capacità di mettere in circolo la conoscenza nei gangli della società italiana? Questo significa, in poche parole, riaprire il Paese alla ricerca, valorizzare i ricercatori, infondere coraggio nella scuola e negli insegnanti: in una parola, restituire segnali di attenzione al mondo della cultura tutto.
Invece, si stenta ancora a riconoscere nell’Università un valore tra i più universalistici, strategici e moderni. Tende a venir meno la consapevolezza dell’importanza vitale della formazione e della ricerca come motori dello sviluppo civico e socio-economico: il chiaro sintomo di una più ampia recessione, anche sul piano culturale. Al contrario, occorre più che mai un chiaro riconoscimento del ruolo degli atenei, senza il quale gli stessi valori dell’innovazione e dello sviluppo rischiano di rimanere pure affermazioni retoriche. Prospettive solo “virtuali”.
Risolvere il problema dell’accesso agli studi universitari.
Occorre sperimentare politiche che aumentino almeno l’accesso agli studi universitari, immaginando coraggiose proposte di riduzione della tassazione d’impatto. Nel volume Contro il declino dell’Università. Appunti e idee per una comunità che cambia, scritto con Valentina Martino (Il Sole24Ore, 2005), abbiamo ad esempio ipotizzato un accesso gratuito al primo anno degli studi universitari, compensato rapidamente dall’espansione della domanda e da prestiti d’onore mirati, in particolare, alle matricole.
Con lo stesso coraggio occorre dichiarare pubblicamente che l’accesso al secondo livello – lauree specialistiche e master – non può che essere a numeri programmati, con un ripristino di centralità della meritocrazia.
Avviare una politica di riequilibrio nel reclutamento sociale della base studentesca.
Oggi, la platea universitaria è prevalentemente ascrivibile alle classi superiori e al ceto medio. Sta di fatto che il grave sottofinanziamento in cui versano gli atenei (specie di grandi dimensioni) si riverbera drammaticamente sull’accesso all’offerta formativa e, dunque, sulla tutela dei diritti degli studenti. E non si tratta solo di disagi, ma di veri e propri diritti negati: le nostre politiche di promozione degli studi restano molto labili, se non ancora all'”anno zero” rispetto all’esperienza di gran parte degli altri Paesi europei.
Questo tempo deve finire: se non altro perché implica la scoperta che le famiglie più povere finiscono per pagare, con la contribuzione ordinaria, una parte degli studi dei figli delle classi più ricche. Nelle grandi università, già oggi si verificano interessanti forme di “inclusione sociale” dei figli di migranti, e probabilmente politiche selettive in questa direzione si affermeranno rapidamente. Sarebbe paradossale che ciò avvenisse senza una strategia di diversificazione delle provenienze sociali che valga per tutti, e che consenta anche di superare il sostanziale monismo piccolo-medio borghese oggi dominante nella società italiana.
Riaprire ai giovani la ricerca e l'”inizializzazione” alla carriera universitaria.
Nella prospettiva di pochissimi quinquenni, gran parte della docenza universitaria è destinata a finire fuori ruolo per sopraggiunti limiti d’età. La riforma dell’accesso all’insegnamento universitario voluta unilateralmente dal Governo uscente ha un chiaro limite nel rapporto tra le generazioni: privilegia chi è dentro il sistema; dà segnali di ambigua alleanza agli interni non vincitori di concorso, sceglie gli anziani contro i giovani. Basti pensare che solo per i giovani si prospettano soluzioni a contratto, con una sanatoria di fatto per quanti – dentro le porte del “tempio” – vivono situazioni di disimpegno, che meglio si configurerebbero con formule part-time.
Non sarebbe stato meglio, allora, “spalmare” la flessibilità – anche con politiche di incentivazione – pure sui docenti e sui ricercatori in servizio? Con questa normativa – che avrà certamente aspetti positivi – è facile prevedere che l’accesso e le carriere dei giovani siano ritardate ulteriormente. E il paradosso è che già oggi i tempi sono lunghi: lo dimostrano le dimensioni abnormi assunte dal precariato nell’Università italiana e l'”esercito” di oltre 50.000 ricercatori e docenti non strutturati, al cui generoso lavoro si deve la capacità stessa degli atenei di fronteggiare l’accresciuta domanda di formazione e servizi.
Aprire gli occhi sul “laboratorio-giovani”.
In quasi tutte le sedi più antiche del sistema universitario – sempre collegate ai centri storici, e comunque tali da costituire altrettanti cittadelle del sapere dentro gli assetti urbani – la formazione dei giovani non si ispira più solo al bancone dell’offerta accademica. Più che in passato, la socializzazione avviene per via “respiratoria”: a contatto con le città, contaminandosi con le popolazioni “stanziali”, funzionando quasi naturalmente da motore multiculturale delle nostre città. Se questo avviene fra studenti e città – seppur con la mediazione di un mercato degli affitti spesso medievale – come non pensare che le politiche culturali, comunicative, di intrattenimento delle città italiane non possano non coinvolgere i tanti atenei e la loro risorsa più forte e competitiva, cioè gli studenti?
In conclusione, se è compito della politica gestire il quotidiano e progettare il domani, l’anticipazione del “dopodomani” – e, dunque, la costruzione del futuro – resta naturale prerogativa dell’Università e della funzione unica che a essa spetta attraverso l’intreccio di formazione, ricerca e azione culturale. Per questo, il rilancio del Paese dipende anzitutto dalla rilevanza che le nostre classi dirigenti sapranno attribuire alle “culture del dopodomani”, quelle cioè dell’innovazione e dello sviluppo. Ma anche da quale sistema di alleanze con il sistema politico gli atenei saranno in grado di coltivare attivamente da qui in poi.