di Gian Piero Jacobelli
Come sanno i nostri abbonati, ogni settimana MIT Technology Review Italia realizza e diffonde una newsletter, intitolata HomePage, in cui vengono sintetizzate le tematiche prevalenti nella settimana precedente. Rispetto al succedersi quotidiano delle notizie, ne emerge un quadro di priorità attualizzate agli eventi, non soltanto scientifici e tecnologici, che influenzano o potrebbero influenzare la vita di tutti noi.
A questa prospettiva, che potremmo definire sussultoria, di tanto in tanto facciamo seguire, come in questo caso, una prospettiva di maggiore portata, non soltanto temporale, ma anche e soprattutto concettuale. Lo scopo è quello di cogliere nella agenda setting della quotidianità un andamento sottostante in grado di conferire alle notizie la capacità di dire qualcosa di più in merito alle notizie stesse.
Di riflettere su fenomeni, politici, sociali, culturali, che vanno oltre le singole emergenze nei diversi campi della scienza e della tecnologia.
Una considerazione in particolare ci sembra tanto pertinente quanto significativa; una considerazione che tende a evidenziare la caratteristica dominante della società contemporanea: quella della crescita a tutti i costi; di una crescita in cui i valori quantitativi tendono a prevalere su quelli qualitativi.
Ovviamente la pandemia ha giocato un ruolo predominante nella messa in mora di questo massimalismo programmatico, costringendolo, quanto meno nelle intenzioni, a una sorta di faticoso contenimento. Tuttavia, quando ancora non si può dire di esserne davvero fuori, già torna a prevalere il tradizionale compiacimento per i numeri della economia finanziaria e produttiva, che hanno ripreso a crescere anche più di prima.
Per altro, sta emergendo la diffusa consapevolezza di come i tanti e diversi problemi che ci affliggono, siano radicati proprio in quelle aspettative intemperanti che da un lato sembrano promettere continui miglioramenti nella vita individuale, ma dall’altro lato mettono sempre più in questione la vita collettiva. Alla pandemia, che ancora non si sa se derivi da una trasgressione naturale o da una trasgressione culturale, dagli eccessi della antropizzazione o da quelli della sperimentazione, si associa in maniera sempre più estesa e drammatica la deriva climatica, di cui tutti parlano, ma pochi fanno davvero qualcosa per contenerla.
La contraddizione risiede comunque in un “eccesso di potere”: il potere di trasformare senza limiti gli equilibri della natura o quelli della cultura, che culmina nella dirompente e talvolta irresponsabile ricerca sulle caratteristiche fondamentali dell’essere umano, da quelle del patrimonio genetico a quelle della conoscenza e della coscienza.
Che quello dell’eccesso costituisca un vizio incoercibile della nostra civiltà incapace di concepire un “progresso” di carattere non esclusivamente performativo, lo dimostrano anche gli eccessi impliciti nelle stesse misure adottate per fare fronte, con risultati non sempre soddisfacenti, alla esigenza di cogliere le connessioni tra le molteplici preoccupazioni che si affliggono e, quindi, di adottare provvedimenti concomitanti e sinergici. Eccessi nel controllo sociale e culturale; eccessi negli interventi ambientali, che per riparare i danni creano altri danni; eccessi negli stessi processi di elaborazione digitale, che tanto più consentono di fare quanto meno consentono di sapere davvero cosa si sta facendo.
Questo disorientamento ancora una volta ha il suo fuoco nei tetragoni algoritmi della Intelligenza Artificiale, che tende impetuosamente a infiltrarsi in tutti gli aspetti del nostro modo di essere e di fare. Gli antichi filosofi predicavano che, per rendersi conto di quale fosse la giusta misura in ogni intervento naturale o culturale, si dovesse riflettere su cosa succederebbe se non potessimo farne a meno. Si tratta di un esperimento mentale tanto più attuale quanto più rende manifesta la precarietà dei grandi sistemi in ragione non soltanto della loro complessità, ma anche della loro efficacia, che spesso può ritorcersi su se stessa.
Per dirla in termini omerici, più della “trama” (nel duplice senso dell’inganno e del destino) che trasforma il cavallo di Troia nell’incendio di una città e nella dispersione del suo popolo, si dovrebbe pensare alla tela di Penelope, con cui viene recuperata la continuità famigliare e domestica, grazie all’“ordito” che va e viene, consentendo alla tela di allungarsi o di accorciarsi secondo le necessità e le convenienze. Per mitigare, conclusivamente, sia l’eccesso dei problemi, sia l’eccesso delle soluzioni.
(gv)