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    La guerra in Ucraina significa il ritorno del carbone?

    I tagli di importazione di carburanti ed energia intrapresi dai paesi europei possono accelerare i tempi di una transizione globale dai combustibili fossili, ma rischiano seriamente di aumentare la dipendenza da fonti meno volatili. E più inquinanti

    di MIT Technology Review Italia

    L’esportazione di combustibili fossili è fondamentale per l’economia russa. Il paese è il principale esportatore di gas, il secondo più grande di petrolio greggio e il terzo per quanto riguarda il carbone. La Russia è da tempo ben consapevole della propria vulnerabilità nel vendere combustibili fossili a una Europa sempre più impegnata sul fronte della decarbonizzazione.

    Non a caso, la lobby del carbone in Russia ha cercato attivamente di espandere i suoi mercati asiatici ormai da anni, a causa del rischio per le esportazioni rappresentato dalle restrizioni climatiche europee. Anche se l’Europa rimane il più grande mercato di esportazione di gas, la Russia sta diversificando con l’aumento delle forniture alla Cina.

    Nel 2019, il gasdotto Power of Siberia ha iniziato a trasportare gas dalla Siberia direttamente alla Cina. Poche settimane prima dell’invasione dell’Ucraina, la Russia ha annunciato un accordo per un nuovo gasdotto verso la Cina.

    All’inizio della guerra, Ellie Martus e Susan Harris Rimmer, della Griffith University in Australia, hanno sostenuto cla necessità per la UE di politiche più decise per ridurre le importazioni russe, favorendo allo stesso tempo l’incerta transizione green del continente:”Potremmo assistere a  iniziative concrete per passare alla generazione rinnovabile interdipendente, come i proposti parchi eolici offshore destinati ad essere condivisi da più nazioni europee”.

    “Ma”, mettono in guardia, “l’abbandono dei combustibili fossili russi non implica un inevitabile raddoppio delle energie rinnovabili. Nel breve termine, c’è un enorme rischio che la crisi in Ucraina si concentri sulla sicurezza energetica a scapito della decarbonizzazione”.

    A loro parere, esiste un pericolo reale di assistere a un ritorno all’energia a carbone. Paesi come la Germania, potrebbero anche essere costretti a ripensare o ritardare l’uscita totale dal nucleare. Non a caso, altri importanti esportatori di combustibili fossili come l’Australia si stanno già mettendo in fila per colmare eventuali lacune nei mercati europei”.

    Il nuovo governo tedesco ha approvato un’agenda ambiziosa, compresi gli obiettivi entro il 2030 di eliminare gradualmente il carbone ben otto anni prima di quanto previsto dalla Merkel, raggiungere l’80% di elettricità rinnovabile (rispetto al precedente obiettivo del 65%), destinare il 2% della terra per l’eolico onshore e raggiungere il 50% di riscaldamento a impatto zero.

    “Ha anche fissato”, afferma Trevelyan Wing del Centre for Environment, Energy and Natural Resource Governance della Cambridge University, “grandi obiettivi su veicoli elettrici, elettrificazione dei treni, idrogeno verde e solare sui tetti, con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica entro il 2045”.

    “L’invasione russa dell’Ucraina”, continua Wing, “ha reso tutto più difficile perché la transizione energetica tedesca negli ultimi dieci anni ha fatto sempre più affidamento sul gas come ‘combustibile ponte’, per limitare la necessità di energia da carbone ad alto contenuto di carbonio e guadagnare tempo per costruire energia solare, eolica e altre fonti rinnovabili”.

    Questo ponte ora è “crollato”,  secondo Jennifer Morgan, ex direttrice esecutiva di Greenpeace International, ora rappresentante del governo tedesco in materia di politica climatica internazionale,  che ha paventato il rischio che un embargo sul petrolio e sul gas russo porti a carenza di benzina, nuova povertà e disoccupazione di massa in Germania.

    Una risposta proattiva tedesca potrebbe ancora trasformare una crisi energetica indotta dalla guerra in un’opportunità verde, se il governo federale assicurerà il sostegno pubblico alle tecnologie di generazione distribuita, in particolare alla formazione di cooperative e altre forme di imprenditorialità interessate allo sviluppo di comunità energetiche che fanno riferimento al Clean Energy Package

    Alcuni esperti suggeriscono che un embargo potrebbe avere un impatto sull’economia del Paese inferiore a quello del covid, portando a breve termine a un calo del PIL compreso tra lo 0,5 e il 3%, rispetto a un calo del 4,5% durante la pandemia del 2020. Nel frattempo, le energie rinnovabili potrebbero essere ampliate in modo massiccio per contribuire a colmare la carenza, con il carbone, per esempio, che fornisce una soluzione di riserva temporanea.

    Secondo David Toke, esperto di politica energetica dell’Università di Aberdeen, la paura di dover fare a meno del gas russo per riscaldare le case e generare elettricità sta indebolendo la risposta della Commissione europea alla crisi.

    “Complessivamente”, spiega Toke, “la UE deve sostituire 155 miliardi di metri cubi di gas naturale per porre fine alla sua dipendenza dai fornitori russi. Ciò può essere fatto senza aumentare la produzione di quelli che la UE chiama ‘gas rinnovabili’ come l’idrogeno e il biogas”.

    L’idrogeno è un combustibile a basse emissioni di carbonio che può essere prodotto scindendo le molecole d’acqua con elettricità rinnovabile (in tal caso, si chiama idrogeno verde). Il biogas è un prodotto della digestione anaerobica di colture energetiche, come il mais (coltivato utilizzando fertilizzanti tipicamente generati dalla combustione di combustibili fossili) e rifiuti agricoli, compreso il letame.

    Gli incentivi destinati alla produzione di idrogeno o biogas verde”, continua Toke, “dovrebbero essere utilizzati per installare milioni di pompe di calore elettriche e rinnovare gli edifici per garantire un minor spreco di energia. Queste pompe, infatti, utilizzano elettricità rinnovabile per produrre calore quattro volte in modo più efficiente e a costi molto inferiori per il consumatore rispetto all’idrogeno verde”.

    Le conseguenze della guerra non si limitano solo a un’influenza immediata sulle politiche da intraprendere in campo energetico. Come ricorda Gavin Harper, ricercatore di materiali critici presso l’Università di Birmingham, un altro punto di debolezza è legato al fatto che la Russia, oltre ad essere un importante esportatore di combustibili fossili, fornisce anche gran parte del platino e del nichel a livello globale, che rappresentano elementi essenziali per la produzione di celle a combustibile a idrogeno e batterie per veicoli elettrici.

    Il platino e il palladio sono metalli preziosi che vengono utilizzati per realizzare i convertitori catalitici, dispositivi che riducono la concentrazione di inquinanti atmosferici nelle emissioni dei veicoli con motori a combustione interna. Senza tenere conto di questo panorama più esteso, appare difficile sbilanciarsi sulla direzione che prenderà il futuro della transizione green.

     
    (rp)

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