Nel suo nuovo libro – “Che cosa è successo nel XX secolo?”, pubblicato da Bollati Boringhieri – Peter Sloterdijk si sofferma sulle più recenti problematiche della globalizzazione, che impongono una inedita assunzione di responsabilità nei confronti del mondo contemporaneo e delle sue “tecnologie” mentali e strumentali.
di Gian Piero Jacobelli
Questo è un libro di quasi 300 pagine, che però si fa leggere senza sforzo, perché i singoli capitoli, per quanto storicamente e filosoficamente connessi, si presentano con un taglio saggistico e talvolta dichiaratamente narrativo.
L’autore, Peter Sloterdijk, è uno dei maggiori filosofi tedeschi, ma è anche un osservatore attento e partecipe di quanto succede quotidianamente nel “teatro del mondo”: e la locuzione shakespeariana non è casuale, anche se Shakespeare non è mai citato esplicitamente.
Di fatto, il teatro del mondo non si riflette più nel mondo del teatro. Anzi, Sloterdijk allude ripetutamente al fatto che, da quando il mondo occidentale, per via di terra o per via di mare, ha fagocitato ogni altro mondo, è venuta meno la dialettica tra “fuori” e “dentro”. Quindi anche la dialettica “rappresentativa” che consentiva al teatro di farsi interprete della possibilità di gestire nello spazio e nel tempo “concepibile” del palcoscenico il flusso altrimenti inconoscibile e incontrollabile degli avvenimenti esterni.
Oggi tutto avviene, non soltanto per virtù mediatica, “come a teatro”, senza però che ci sia più la possibilità di uscire da teatro per tornarsene a casa.
Non a caso, nel titolo del suo libro, Sloterdijk si chiede «Che cosa è successo nel XX secolo?», e possiamo facilmente immaginare nella sua voce qualche screziatura di incertezza e di preoccupazione. L’interrogativo si presta, infatti, a una duplice, contraddittoria risposta.
La prima, che tutto è successo quanto poteva succedere, da quando i mezzi della mobilità e della comunicazione hanno consentito di sentirci cittadini del mondo e di accettare non più come una sventura, ma come una opportunità che non si debba necessariamente vivere dove si è nati.
La seconda, che nulla succede, che nulla può più succedere, proprio perché l’avvenimento fondamentale del Novecento, la globalizzazione, ha rimosso quel fattore della “lontananza” in cui risiedeva il fattore fondamentale di ogni autentico avvenimento.
Questa contraddizione al tempo stesso esistenziale e filosofica, costituisce il filo rosso dell’argomentazione di Sloterdijk, il quale procede brillantemente con un colpo al cerchio e un colpo alla botte.
Il cerchio, ovviamente, è quello del mondo, in cui sta venendo meno ogni confine geografico, ma parallelamente stanno insorgendo tanti altri confini da un punto di vista politico (collettivo) e comportamentale (individuale).
Non è privo di significato che, nonostante la scienza e la tecnologia stiano da almeno un paio di secoli globalizzando il mondo, solo nel 1983 l’economista di Harvard e teorico del marketing Theodore Levitt abbia parlato per la prima volta di “globalizzazione dei mercati” in un articolo apparso sulla Harvard Business Review, finalmente «coniando un nome per l’evento più rilevante della nostra epoca: la trasformazione del mondo in un contesto dinamico in cui quasi tutto entra – quasi dappertutto – in interazione con quasi tutto».
Tuttavia, con la «internalizzazione» delle conoscenze e delle relazioni, si registra anche una deprecabile «esternalizzazione degli effetti collaterali», che rischia di trasformare l’“astronave Terra” in una discarica non soltanto di rifiuti materiali, ma anche di rifiuti mentali, di rivalità, di intolleranze, di violenze verbali e fisiche.
Questa «ottica astronautica» offre a Sloterdijk lo spunto per dare un colpo anche alla botte, vale a dire alla stessa “astronave Terra”, in un capitolo dedicato alla «filosofia della stazione spaziale». In uno spirito “sofistico”, anche la stazione spaziale gli appare sostanzialmente ambivalente, perché se, da un lato, accresce il valore dell’“essere nel mondo”, che diventa un complessivo orizzonte di riferimento, dall’altro lato inaugura la prospettiva di una vita in grado di proiettarsi fuori del mondo.
Non sorprende che questa fluttuante parabola argomentativa si concluda con Odisseo, il personaggio più discusso della storia epica ed etica occidentale.
Odisseo è polytropos, cioè “uomo dalle molte vie”, il quale incessantemente può perdersi e ritrovarsi, ma è anche polymechanos, cioè uomo il quale, quando si trova alle prese con un problema, pensa sempre a un modo per aggirarlo: a qualcosa, un espediente o uno strumento, che possa renderlo meno “inerme” e meno passivo nei confronti di quanto avviene.
L’importante, per Odisseo e per Sloterdijk, è che non avvenga a nostra insaputa, ma avvenga sapendolo, perché si possa «collaborare alla rete dei cicli di vita più semplici e di quelli più evoluti, nei quali gli attori del mondo attuale portino avanti il loro esser-ci nella co-immunità».