Nell’odierno disagio individuale e collettivo, lo scenario della comunicazione
sembra offrire nuove opportunità e nuove gratificazioni.
di Mario Morcellini
La nostra cultura scientifica e, soprattutto, il dibattito pubblico soffrono, non a caso, di una acuta genericità nella capacità di definire il tempo in cui viviamo. La frequenza con cui i moderni ricorrono al termine «crisi» rivela la sensazione che, al di là dei giochi linguistici, essa sia una sorta di conduttore, quasi il testamento del tempo in cui ci è capitato di vivere. Per di più, l’uso corrente del termine appare scorretto sul piano semantico, se non altro perché riduttivamente intende crisi come declino, come fase di sfarinamento dei valori e delle istituzioni, quando in realtà essa significa cambiamento (dal greco: distinguo, separo, scelgo, decido).
Dunque, la crisi può essere una possibilità straordinaria di ricostruire, operando nuove scelte. Ancora una volta, questa consapevolezza richiama l’attenzione sul rapporto tra soggetto e società: oggi, non riusciamo come in passato a circoscrivere le prerogative che l’individuo percepisce come soggettive (in altre parole, lo spazio della soggettività o dell’identità) e quelle che invece riconducono alla dimensione del sociale. Più precisamente, la raffigurazione polarizzante soggetto-società si è esaurita: si è gonfiato lo spazio dell’individualismo e, almeno nell’immaginario e nella retorica pubblica, si è smarrita la competenza del sociale. Quella stessa che, in passato, era invece interfaccia di identità, fonte di protezione e rassicurazione.
Tutte queste funzioni sono diventate più problematiche e, per molti versi, improbabili. Pensiamo al disagio della condizione giovanile, che non trova un’adeguata risposta da parte della società, sempre più incapace di riempire di contenuti nuovi le deboli identità dei soggetti, in particolare di quelli in formazione. Una delle ragioni per cui la comunicazione è così centrale, ciò per cui è decisivo studiarla, è che essa rappresenta il «liquido» che disseta il deserto, inteso come metafora di un rapporto inaridito fra soggetti e istituzioni. La società non ce la fa più a porsi come struttura normativa di riferimento per gli individui, e le repentine accelerazioni che sconvolgono il tessuto sociale cedono il posto all’incertezza e alla precarietà, divenute ormai da tempo le cifre della contemporaneità. L’ordinamento sociale è vissuto come dispotico, repressivo e comunque incapace di regalare realizzazione e felicità individuale. è per questo che l’individuo attiva una «guerriglia» continua contro tutto ciò che è vissuto come istituzionale.
è dunque necessario operare una rimessa in discussione dei contenuti e dei valori, partendo proprio dalla crisi, o meglio, da ciò che di positivo possiamo trarre da essa. Infatti, se una cultura non riesce a reggere al passaggio delle generazioni, significa che è arrivato il momento di aggiornarne contenuti e valori.
In particolare, il popolo giovanile si configura come un ambito specifico dell’analisi del mutamento sociale, nel quale è possibile osservare, in modo particolarmente efficace, le interrelazioni tra le diverse dimensioni degli scambi materiali e simbolici, fra gli effetti sistemici del mutamento e le trasformazioni delle matrici di identità. I giovani possono infatti essere considerati un importante terreno di prova per i progetti di costruzione di nuove identità collettive, poiché principali intestatari di ogni appartenenza in fieri. In quanto attori proiettati naturalmente verso il futuro (a dispetto del presentismo sempre più dilagante), essi costituiscono il banco di prova di un progetto identitario innovativo. Ed è nell’identità sociale giovanile che appare possibile individuare i tratti peculiari dei processi di mutamento, che passano per i consumi e la produzione culturale, per le scelte politiche e religiose, per gli orientamenti valoriali, per le (precarie) condizioni lavorative eccetera.
Senza dubbio, la network society fa crescere i giovani in una dimensione, reale o percepita, del rischio che non costituiva una priorità all’epoca dei loro genitori. Questo significa che l’individuo è rimasto solo di fronte al percorso della propria esistenza, alle proprie scelte e responsabilità. I ruoli non sono più fissi, ma costantemente reinventati; in altri termini, non abbiamo altra scelta che fare delle scelte continuamente. In questo clima apparentemente destrutturato e destrutturante, nella tarda modernità stanno emergendo nuove forme di «classe» basate sul capitale culturale, che caratterizzano le disposizioni dei diversi stili di vita; in particolare giovanili; contemporanei.
L’esplosione della complessità sociale, dagli anni 1960-1970 in poi, ha comportato un malessere diffuso, associato a una percezione di crisi (di governabilità, di motivazioni, della ragione) che ha richiesto diverse forme di acclimatamento a questa condizione problematica. Negli ultimi anni, a implementare la già strisciante fragilità dello scenario socio-culturale, si sono sovrapposti alcuni allarmi collettivi (paura dell’immigrato, delle rapine e dei furti, delle microcriminalità di strada, della violenza giovanile, del lavoro mancante o precario, della perdita del potere d’acquisto eccetera), destinati a sfociare nel panico diffuso da un’implosione finanziaria internazionale senza ravvicinati precedenti.
In questa cornice confusa, qual è stato il ruolo dei media? Si sono venuti a definire come una vera e propria «fabbrica della paura» (Censis, 2009), o sono riusciti invece ad aiutare a vivere più umanamente con gli altri, senza che i valori condivisi fossero fagocitati dal trascorrere del presente, dalla cultura dell’individualismo, dall’atomismo competitivo? E in quale misura hanno funzionato da capitale sociale?
Da questo punto di vista, i giovani si confermano un campo di più lucida trasparenza del mutamento sociale e culturale al tempo della crisi. Ebbene, abbiamo di fronte poche evidenze stabilizzate dentro un arcipelago di segni dispersivi e frammentari: anzitutto, ma solo per motivi di vistosità, l’exploit delle tecnologie e la dilagante varietà della comunicazione; in seconda battuta, un’impressionante alterazione nei rapporti fra individui e società che, con una formula forse impaziente, definiamo come processo di individualizzazione di massa. Non cogliere il legame fra questi due fenomeni significa chiudere gli occhi sulle emergenze distintive del nostro tempo e sullo stesso disagio dell’essere giovani oggi.
Non è tuttavia la comunicazione, ma il suo cambiamento compulsivo a incalzare la società italiana, riducendo la nostra capacità di interpretarne le trasformazioni a tutti i livelli: la famiglia, la cultura e la formazione, l’economia, la dinamica demografica, lo spazio delle istituzioni pubbliche. L’Information Society è un paradigma di trasformazioni. Tuttavia, la verità è che i mutamenti tecnologici ed espressivi sono graduali e si insediano sulle culture comunicative preesistenti, ereditandone contraddizioni e prospettive di sviluppo nel medio e lungo termine. Infatti, non siamo affatto al tramonto dei «vecchi» media, bensì ci troviamo di fronte a un pluralistico allargamento dell’approccio alla comunicazione, che si avvia a livelli sostanzialmente europei di multimedialità, a un interesse inedito per i consumi di qualità, dal teatro al libro, cui fa da sottofondo un’espansione abbastanza faticosa di Internet. è un «passaggio al futuro» graduale, che tuttavia emerge più espressivamente se si osserva con continuità l’universo giovanile.
Nonostante le opportunità di coinvolgimento e interazione offerte dalle recenti tecnologie, siamo di fronte alla riscoperta di forme di fruizione in passato definite «d’élite», come il teatro, la musica classica, i musei, le mostre. è così che i giovani scelgono di navigare verso forme di consumo partecipativo «altre», accanto a quelle praticate quotidianamente con il mouse del PC o il telecomando della televisione. Le nuove generazioni, attive ed esplorative, dimostrano di sapersi muovere sull’asse generalismo/personalizzazione, nella ricerca di opportunità culturali dentro e fuori le tecnologie.
La capacità di decidere quando, dove, perché, come e con chi comunicare – soprattutto nelle nuove esperienze di comunicazione legate a Internet e al cellulare − lascia intravedere l’immagine sfocata di «viandanti» che costruiscono il proprio itinerario culturale combinando diverse forme di consumo. Questa è la fotografia dei giovani moderni: abitanti dei territori più dinamici del tessuto sociale, autori di creativi mix in grado di soddisfare i personali bisogni di apprendimento e di crescita. Il loro nomadismo oscilla fra il desiderio di protagonismo, discendente dal rinnovato individualismo moderno, e il disagio esistenziale di chi risente di una carestia di punti di riferimento. Diventa più importante la relazione che le persone attivano fra i diversi «arcipelaghi» piuttosto che il rapporto con il singolo medium ed è solo riflettendo sui percorsi ondivaghi e di Rete attivati dagli individui rispetto ai prodotti e ai processi culturali che è possibile giungere a una rappresentazione più puntuale delle famiglie di comportamenti delineate dalle relazioni fra i consumi culturali, segno del generale pluralismo con cui i soggetti tendono a costruire la propria dieta.
In questo scenario, diventa interessante la dinamica osservabile fra la crescita quantitativa della comunicazione e l’impatto sui valori, a partire da uno stridente paradosso: da un lato, le percentuali di fruizione dei media incoraggiano una lettura ottimistica; dall’altro, è come se fosse entrata in crisi l’idea di una relazione positiva e quasi «automatica» fra innovazione dei media e della società. Il problema è che molte delle nostre certezze etiche sulla comunicazione riposavano sull’assunto che un’esposizione più competente (a cui contribuisce anche l’aumento di scolarizzazione, non solo di base) generasse una più elevata capacità di partecipazione e di cittadinanza critica. Questa è stata quasi una bandiera degli studi sociali sulle disuguaglianze culturali, nella promessa di come il superamento delle fratture e dei condizionamenti sociali nell’accesso avrebbe comportato una società più trasparente e «aperta».
Non è andata esattamente così, e non sappiamo per di più dove è avvenuto il punto di frattura. La generazione che cresce (anche) on line rimedia con la comunicazione al disagio e alla precarietà esistenziale che vive nella realtà. I media hanno, infatti, almeno il potere di abbellire l’esperienza del mondo, di offrire una second life immaginaria, senza noia, incertezza, paura, problemi o solitudine. Tutti disagi di cui i giovani d’oggi fanno invece già ricca, ed esasperante, esperienza nel mondo reale. Tecnologicamente competenti e culturalmente attivi, i ragazzi sono infatti tendenzialmente deprivati di molte chance rispetto alle generazioni precedenti. Se il disinteresse della politica, l’esaurimento della forza educativa della famiglia e la precarizzazione del mercato del lavoro appaiono scoraggianti, la comunicazione si offre, invece, come elastica e flessibile, una piattaforma che permette quelle condotte frustrate dalla realtà off line. Chat, forum, blog e social network sono, al tempo stesso, sistema nervoso e ammortizzatore delle crisi, ovviamente non privi di pericoli.
Al tempo stesso, i giovani appaiono assai più creativi rispetto all’offerta culturale «anchilosata» della TV: la loro capacità di essere in Rete come soggetti strategici, produttivi, li rende protagonisti di una comunicazione innovativa, esplorativa e sperimentale. Così, il pulviscolo delle iniziative giovanili (blog, YouTube, MySpace, media nati nel mondo della scuola e dell’università eccetera) testimonia non isolate posizioni avanguardistiche, ma una nuova soggettività diffusa e la capacità di modificare il consumo rendendolo «produttivo». Ed è da qui che, a nostro avviso, bisogna ripartire per comprendere, senza facili esaltazioni, le trasformazioni della comunicazione al tempo della crisi e le potenzialità del cambiamento.