Il racconto di una modernizzazione frustrata.
di Mario Morcellini
Intorno alla metà degli anni 1970, Lewis Coser, personalità di primo piano nel dibattito sociologico internazionale ed esponente delle “teorie del conflitto”, pubblicò un provocatorio volume sulle “istituzioni dell’avidità” (greedy institutions)(1). La tesi di fondo del volume è che, in certe condizioni, alcuni gruppi sociali − pur restando in relazione con il resto della società − tendono a sviluppare e a istituzionalizzare condotte sempre più distanti dalla quotidianità dei cittadini allo scopo di proteggere i propri privilegi e prerogative di status. Caratteristica di questi gruppi, sempre secondo Coser, è la loro capacità di proporre stili di vita particolarmente desiderabili e attraenti in cambio di un impegno totale e volontario. Eunuchi nelle corti imperiali cinesi o ottomane, bolscevichi o appartenenti a sette millenariste americane sono accomunati dall’aver scelto una vita di impegno totale e l’accettazione di rigidi meccanismi di controllo sociale in cambio di gratificazioni personali che si rivelano spesso incompatibili e deleterie per il benessere della collettività in cui sono inserite queste istituzioni.
Non è difficile scorgere qualche analogia con i soggetti che popolano la parte più “rapace” e spregiudicata del capitalismo avanzato: il crack finanziario della Lehmann Brothers (per citare un esempio tra i tanti possibili) ha bruciato i risparmi di una vita di centinaia di migliaia di famiglie, a causa di un’élite che ha cumulato privilegi contro qualsiasi regola e interesse estraneo a quelli della propria cerchia.
Il modo in cui il diritto elabora strategie di difesa dell’interesse collettivo dalle insidie dei privilegi personalistici è un formidabile indicatore dell’avanzare della modernità: per comprendere la solidità del nesso tra legge e modernità bisogna forse tornare al mugnaio di Potsdam, che si ribellò all’imperatore Federico II di Prussia, apostrofandolo con “ci sarà pure un giudice a Berlino”. Non a caso, è proprio in una società in cui l’economia diventa la forma di potere predominante come l’Inghilterra della metà del XIX secolo, che si colloca storicamente la nascita della class action, intesa come “moderno” strumento di soluzione delle controversie tra cittadini e potere economico.
Ma il processo di modernizzazione in Italia spesso sembra voler rivendicare una paradossale cifra distintiva, dissonante da quanto avviene in altri paesi: gli elementi d’innovazione profonda spesso devono convivere con le resistenze delle culture più retrive e antiquate. Lo sviluppo economico non fa eccezione: la crescita delle imprese non sempre si è accompagnata a una coerente capacità di aggiornare gli strumenti del diritto e della governance politica agli imperativi della comunicazione. Per questa via, nel nostro paese la relazione tra economia, comunicazione e politica più che un elemento di virtuoso dinamismo, sembra dar luogo a un intreccio di interessi a rischio di paralisi.
Viviamo una crisi della mediazione che, al di là della retorica, non risparmia il rapporto tra consumatori e imprese. Da tempo circola l’idea che la comunicazione possa rappresentare il mezzo elettivo per avvicinare due soggetti così centrali nel tempo in cui viviamo. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni d’intenti, questa istanza spesso si risolve in una professione poco convinta, certamente distante dalle pratiche degli attori economici e dal modello di regolazione che compete alla politica. Coerentemente a quanto era già emerso in una ricerca simile sulla rappresentazione mediale del consumerismo, recensita due anni fa su questa stessa rivista(2), il caso della class action e del suo paradossale iter è per molti versi un caso esemplare di modernizzazione frustrata: su un tema di largo interesse pubblico come i diritti dei consumatori, il governo Prodi aveva faticosamente varato una legge, ma l’attuale maggioranza ha oscillato tra tattiche dilatorie e scelte di una diversa terapia, così contraddittoria da giustificare le parole di Antonio Catricalà, Garante per la Concorrenza: “Le associazioni dei consumatori sono rimaste sole nell’affermazione di un principio di civiltà giuridica”.
Per comprendere come si sia dipanato il dibattito sulle azioni collettive, è utile dare uno sguardo ai risultati di una ricerca sulla rappresentazione giornalistica della Class Action, presentata a giugno dal Movimento Consumatori e Movimento Difesa del Cittadino in collaborazione con Consumers Forum e patrocinata dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione della “Sapienza” di Roma.
L’indagine, condotta su 369 articoli pubblicati da quattro quotidiani nazionali (“la Repubblica”, “Il Corriere della Sera”, “il Sole 24 Ore” e “Italia Oggi”) in tutto il 2008 ha avuto il merito di “prendere le misure” al dibattito giornalistico intorno a questo argomento, confermando l’ipotesi generale per cui, a fronte di una migliorata capacità di comunicazione delle associazioni consumeriste, il dibattito si è connotato – specie in alcuni settori, come quello creditizio e finanziario – da una certa riluttanza da parte della stampa a cogliere nel ruolo delle associazioni un elemento di vivacizzazione del mercato e di riequilibrio nei rapporti tra imprese e cliente.
Il discorso sulla “class action all’italiana” merita dunque qualche approfondimento a partire da alcuni dati di ricerca. Il primo elemento su cui riflettere è che su 369 articoli, quelli che effettivamente si riferiscono alla class action nel titolo o tematizzano l’argomento delle azioni collettive per almeno metà dell’articolo sono 113, meno di un terzo del totale degli articoli (30,6 per cento). Ciò significa che il dibattito su questo tema è stato significativamente caratterizzato dagli effetti di annuncio e, più in generale, da un forte rumore di fondo che hanno in parte offuscato la capacità di argomentare pubblicamente l’utilità (e i limiti) di questo nuovo istituto giuridico.
I contenuti del dibattito sulle azioni collettive può essere efficacemente e semplicemente illustrato da una semplice analisi lessico testuale. Sottoponendo il corpus ottenuto dall’insieme dei titoli principali di tutti i 369 articoli allo scrutinio delle più essenziali tecniche lessicometriche, è stato possibile analizzare le parole più frequenti nei testi, e di rappresentarle attraverso la tecnica delle Tag Cloud(3). La narrazione appare così dominata dall’azione collettiva intentata negli Stati Uniti dagli investitori della “Parmalat” il cui nome ricorre più di ogni altro nei titoli (20 occorrenze) insieme a “USA” (15) che troviamo al terzo posto, mentre al secondo troviamo, come prevedibile, la parola “consumatori” (17). Più interessante è il peso di altre parole come “banche”, “governo”, “Brunetta” (autore tra l’altro di un controverso progetto di applicazione della class action alla pubblica amministrazione) ma anche di “prezzi” e “risparmiatori”.