É abbastanza normale pensare che l’innovazione sia la diretta conseguenza di una o più invenzioni, e quindi di brevetti. Gli economisti industriali ci dicono invece che ciò non è vero e che non bisogna confondere la creazione di una nuova idea con la sua diffusione commerciale e quindi col suo contributo al processo innovativo. Spesso idee apparentemente ottime non producono cambiamento, perché troppo precoci o troppo radicali e, altrettanto spesso, il cambiamento dipende da fattori socioeconomici e culturali anche più che dalla novità tecnologica.
di Alessandro Ovi
La «mappa della invenzione globale», proposta in questo numero, cerca di tener conto dei vari aspetti del rapporto tra invenzione e innovazione; descrive «la capacità di innovazione di ogni paese» tenendo conto di un insieme di fattori socioeconomici e culturali. Essa fornisce una indicazione molto interessante: anche se è vero che il numero di brevetti non è all’origine del tasso di innovazione, è certo comunque che ne è un importantissimo indicatore.
Nella classifica della capacità di innovazione nazionale, dove i primi cinque paesi sono Stati Uniti, Finlandia, Inghilterra, Giappone e Germania, la sola Inghilterra non fa parte anche della categoria con il più alto numero di brevetti depositati negli Stati Uniti. Ciò significa che c’è, in Europa, un’area dove l’innovazione non solo è possibile per la situazione socioeconomica, ma è anche cercata e promossa sul fronte della invenzione. Si tratta sostanzialmente dei paesi dell’Europa del Nord, area nettamente più avanzata, da questo punto di vista, di quella mediterranea, dove Italia n. 21, Spagna n. 24, Grecia n. 32 sono tra le ultime. Il dato, per quanto ci riguarda, non è nuovo; basta scorrere la lista delle prime 150 aziende per numero di brevetti e trovarne solo una almeno parzialmente italiana, la STMicroelectronics. Ma se si ritorna alle radici socioculturali della mappa si vede che può essere nuova invece la politica per recuperare il terreno perduto.
Certo esiste un problema di scarsità di risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo e soprattutto a scuole che allenino al nuovo i ragazzi, facendoli partecipare prima possibile al mondo delle tecnologie più avanzate. Ma c’è anche, altrettanto importante, un problema culturale di accettazione del rischio imprenditoriale e di sostegno ai giovani che vogliono avviare attività innovative. Serve una atmosfera che inciti a provare, senza barriere burocratiche e con incentivi finanziari e soprattutto dia un premio di visibilità a chi, sia come imprenditore sia all’interno di grandi aziende, intraprenda il cammino di portare il nuovo alla gente.
Quando a Boston alla cerimonia dei TR100, «Technology Review» premia con una cena di gala e una pergamena i 100 giovani innovatori dell’anno, al tavolo d’onore ci sono persone come Bill Gates e il vicepresidente degli Stati Uniti a stringere loro la mano; e i nomi dei TR100 sono quelli di persone da indicare a esempio e da imitare. Quando anche da noi questo sarà vero non solo per moda e design ma anche per nanotecnologie e ingegneria biomedica potremo dire di aver iniziato la rincorsa nell’invenzione e nell’innovazione.