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    In mezzo al guado

    Una nuova ricerca promossa da MIT Technology Review Italia e Federmanager, tramite Federmanager Academy, che fa seguito a quella dedicata nel 2015 ai rapporti tra innovazione e occupazione, configura un quadro di riferimento sempre più complesso, a cui abbiamo già accennato in due precedenti editoriali, identificando nella Intelligenza Artificiale il discrimine più critico tra aspettative e preoccupazioni.

    di Gian Piero Jacobelli

    Un problema difficile, quello della IA, perché siamo in mezzo al guado senza ancora sapere se si tratti di un torrente o di un fiume in piena. Tre aspetti problematici: concettuale, funzionale, macroeconomico.

    Dal punto di vista concettuale, si parla di IA genericamente a proposito di macchine programmate per pensare e agire come un essere umano: una definizione apparentemente semplice, ma piena di incognite. Cosa significa pensare? Cosa agire? Cosa imitare? Cosa essere umano? IA non è “intelligenza” (consapevolezza) e non è “artificiale” (in quanto non imita, ma manifesta un proprio caratteristico modo di funzionare).

    Dal punto di vista funzionale, l’alternativa si pone tra un inquadramento strumentale e un inquadramento sistemico. Nella IA confluiscono funzioni disparate. Da un lato, si pensa a come inserirla nel ciclo produttivo, integrandola a settori come la robotica e l’informatica. Dall’altro lato, si percepisce come influisca sulla organizzazione nel suo complesso e come richieda una mentalità nuova e metodi formativi idonei.

    Infine, dal punto di vista macroeconomico, le posizioni si complicano ulteriormente perché riguardano scenari globali e non solo locali. Recentemente, nel corso di uno degli eventi dell’EmTech di MIT Technology Review USA, Robert Solow, economista premiato nel 1987 con il
    Nobel e professore del MIT, ha sostenuto che è difficile dire se la IA determinerà una trasformazione tecnologicamente diversa da quelle del passato. Per contro, l’economista statunitense Richard Baldwin, studioso dei rapporti tra digitalizzazione e globalizzazione, ha sottolineato che nell’attuale fase di passaggio è molto difficile prevedere come potrà andare a finire: «Dobbiamo prepararci ai cambiamenti radicali che avverranno in futuro. Bisognerà specializzarsi in compiti multitasking che non possono essere svolti meccanicamente dai robot e specializzarsi in lavori che richiedono un’interazione faccia a faccia».

    Queste incertezze e le conseguenti criticità sulle decisioni da prendere in merito alle soluzioni innovative da adottare a livello aziendale e, in genere, organizzativo emergono anche dalla ricerca recentemente promossa da MIT Technology Review Italia e Federmanager, tramite Federmanager Academy, che fa seguito a quella dedicata nel 2015 ai rapporti tra tecnologia e occupazione e che esprime gli orientamenti prevalenti tra i dirigenti e i manager delle aziende italiane alle prese con radicali processi innovativi. Analizziamone alcune indicazioni.

    Sulla “provenienza”

    Nella precedente ricerca di Federmanager con MIT Technology Review Italia (2015) le risposte erano state molto meno numerose: 62 a fronte di oltre 500. Anche nel nostro paese aumenta evidentemente la sensibilità per l’urgenza dei problemi connessi alla innovazione digitale, sia nell’ambito delle grandi manifatture (meccanica
    e siderurgia, 127 indicazioni), sia in quello dei settori tecnologicamente avanzati (elettronica e informatica, 99 indicazioni). Segno che l’argomento sta a cuore indipendentemente dai settori di attività e soprattutto ai dirigenti dai 46 ai 60 anni (70per cento): più motivati perché più integrati o più preoccupati per una radicale riorganizzazione aziendale che potrebbe renderli obsoleti? 

    Per altro, sorprende e forse preoccupa che solo il 4 per cento delle risposte provenga dal Sud, dove il problema della innovazione digitale dovrebbe essere più incalzante, mentre altrove è presente dal 60 per cento al 95 per cento Si tratta di un ritardo formativo, di un ritardo organizzativo o di un diverso, più tradizionale stile manageriale?

    Sulla “competenza”

    Nella precedente ricerca, l’impatto della IA veniva percepito come se concernesse alcuni settori più di altri, quanto meno in termini occupazionali. In questa ricerca sembra più diffusa la consapevolezza che la IA concerne l’intero sistema produttivo, di beni e di servizi. Questa consapevolezza si traduce almeno in parte in un atteggiamento non più essenzialmente difensivo, ma attento alle cose da fare per riuscire a cogliere tempestivamente le opportunità offerte dalla nuova tecnologia.

    L’impressione unanime è che si tratti della maggiore rivoluzione tecnologica e logistica della modernità. Nelle altre rivoluzioni industriali cambiavano i fattori dei sistemi industriali, dalla energia alla forza lavoro, e cambiavano le modalità produttive, con la funzionale ripetitività della catena di montaggio, e cambiavano sia i tempi e i modi del fare, sia le possibilità di controllo automatico. Oggi, con la IA stanno cambiando i rapporti stessi tra le persone nonché tra le persone e il mondo circostante, dalla casa all’ambiente, dal lavoro al tempo libero. E, come alcuni pensatori “oltranzisti” ipotizzano, persino dal corpo alla mente.

    Tuttavia, non sembra abbastanza diffusa la consapevolezza che la IA non costituisce qualcosa di concreto e di autonomo, come la robotica o l’Internet delle Cose, con cui ovviamente si trova sempre più spesso a dialogare, bensì partecipa a un sistema di confluenze tra varie tecnologie digitali. In effetti, quella che MIT Technology Review Italia ha definito Industria 5.0, viene vista come un salto qualitativo della informatica interconnessa di Industria 4.0, che, combinando diverse tecnologie “da lontano” (nano e bio-tecnologie, sensoristica, IOT, realtà virtuale, cloud, mobile), realizza nuove soluzioni produttive flessibili e interattive.

    Sulla “conoscenza”

    La consapevolezza della novità implicita nella IA non si riferisce a comportamenti generici e semplicemente adattivi, ma comporta concrete iniziative proattive, che mutano le relazioni tra gli attori in gioco.

    In particolare: un nuovo impegno in R&D; accordi con centri di ricerca pubblici e privati; creazione di profili professionali in grado di individuare e implementare questi rapporti, dagli addetti allo scouting agli architetti di sistema, i “signori degli algoritmi”; soprattutto, la considerazione sempre più diffusa di un sistema funzionalmente scalare, che parte dalla domanda di innovazione delle imprese medie e grandi, per attivare una fitta rete di start up, di imprese piccole e piccolissime, ma altamente specializzate e predisposte alla commercializzazione del proprio know how.

    Come si vede, con la IA il sistema aziendale non si semplifica, ma si articola in maniera più complessa, dislocando le funzioni organizzative e spostando i ruoli manageriali da quelli delle responsabilità produttive a quelli delle responsabilità relazionali. 

    Non a caso, nonostante qualcuno pensi ancora alle nuove tecnologie come a strumenti di sostituzione del lavoro di uomini e donne, che resta molto costoso rispetto alle macchine, materiali o digitali, praticamente tutti gli interpellati sottolineano la crescente importanza del fattore umano, anche se di tipo non più manuale, ma intellettuale.

    Sulla “occupazione”

    Meno rilevante, rispetto alla precedente ricerca, appare l’attenzione per le conseguenze occupazionali delle nuove tecnologie, forse perché in proposito le opinioni sono ancora contrastanti e indecidibili. O forse perché in questo incerto orizzonte la contabilità tra settori che perdono e settori che guadagnano resta in sostanziale equilibrio, anche se con qualche sfasatura temporale. O forse perché nella prospettiva della impresa “sistemica” il problema del lavoro si pone progressivamente in maniera diversa da quello che in precedenza veniva descritto come il “posto di lavoro”.

    Restano elevate, per altro, le preoccupazioni che riguardano l’Italia, più ancora degli altri paesi europei. Sembra comunque diffusa l’associazione delle difficoltà con i paesi a più elevata industrializzazione e quella delle opportunità con i paesi che una volta si definivano in via di sviluppo. Forse perché in questi ultimi la densità occupazionale è minore o forse perché si pensa che le vecchie strutture produttive appesantiscano maggiormente i paesi che le possiedono rispetto a quelli che ne sono privi e che potrebbero (il condizionale è d’obbligo) optare direttamente per strutture più leggere e innovative. Fanno parziale eccezione gli Stati Uniti, probabilmente come riflesso di una ancora perplessa interpretazione della politica economica di Trump, se possa rivelarsi depressiva o espansiva.

    In proposito, David Rotman, editorialista di MIT Technology Review USA sui temi della innovazione, sostiene che «non c’è un dibattito più sciocco o più disonesto nella comunità tecnologica di quello sul fatto che i robot e l’intelligenza artificiale distruggano posti di lavoro o, al contrario, creino una grande abbondanza di nuovi. In realtà, il risultato dipende da vari fattori economici, su cui non si può ancora sapere quale sarà la influenza della IA. Dobbiamo solo essere pazienti: i progressi tecnologici hanno sempre aumentato i redditi, che hanno poi aumentato la domanda di beni e servizi, che ha poi portato a più posti di lavoro».

    Sulla “organizzazione”

    Un certo senso della precarietà a cui si andrà incontro trapela dalla idea maggioritaria che sarà necessaria una nuova leadership “digitale”: forse un riflesso della odierna deriva carismatica di ogni leadership, non solo economica, ma anche politica; forse un rassegnato cedere il bastone del comando; forse la consapevolezza di non essere abbastanza pronti al “grande balzo”.

    In questa ultima ipotesi si potrebbe cogliere, in controtendenza, un tentativo di conciliazione tra vecchi e nuovi strumenti di leadership e tra una concezione impositiva e una concezione collaborativa della funzione manageriale. 

    La opzione collaborativa tra le diverse funzioni aziendali comporta una vera e propria metanoia del pensiero aziendale. Da questo punto di vista, la richiesta di una formazione trasversale che proponga a tutte le funzioni aziendali i temi di Industria 4.0, sembra adombrare il passaggio alla crescente consapevolezza che con la IA ci si trova già in un’altra dimensione: quella della Industria 5.0, che concerne al tempo stesso un efficientamento produttivo e una disconnessione reticolare delle funzioni aziendali.

    Sulla “formazione”

    In maggioranza i dirigenti interpellati pensano che qualcosa debba cambiare, sia nella articolazione funzionale dei sistemi aziendali, sia nelle modalità e nelle esigenze formative. Qualche comprensibile differenza di valutazione (circa 10 punti percentuali) si può notare tra il rinnovamento gestionale (con un consenso di circa il 50 per cento) e il rinnovamento formativo connesso alla innovazione digitale (con un consenso di oltre il 60 per cento).

    In merito al rinnovamento delle logiche di leadership, infatti, la maggioranza resiste su posizioni “tradizionali”, anche se in maniera un poco ambivalente: da un lato si dice favorevole a una leadership delegata e a un potere manageriale più condiviso e partecipato; dall’altro lato manifesta qualche contrarietà alla scomparsa delle Human Relations, che interpretano ancora le relazioni aziendali in una dimensione di potere sostanzialmente gerarchizzato.

    In merito alle logiche formative, appare invece più diffusa la consapevolezza di una qualche inadeguatezza nei confronti dei processi innovativi connessi alla digitalizzazione, che comporta un passaggio da funzioni ricognitive a funzioni prescrittive dei dati e da una gestione finanziaria più convenzionale rispetto a una utilizzazione estesa di strumenti digitali.

    In sintesi, quasi tutti vorrebbero saperne di più, ma al tempo stesso quasi tutti vorrebbero evitare eccessive trasformazioni funzionali e organizzative. Insomma, un poco gattopardescamente, bisogna che qualcosa cambi perché molto non cambi, ovvero, secondo i ruoli e gli interessi aziendali, bisogna che molto cambi perché qualcosa non cambi.

    Questi atteggiamenti ambivalenti vengono per altro confermati anche in paesi e sistemi produttivi più avanzati del nostro. Una recente indagine condotta su 2.300 leader mondiali di business e IT da MIT Technology Review Insights, ha rivelato che i dirigenti affrontano ancora con preoccupazione le sfide pratiche dell’adozione dell’IA, anche se la ritengono comunque necessaria per fruire adeguatamente della crescita imponente e accelerata dei dati da gestire.

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