Ancora vent’anni fa l’Italia veniva descritta come il paese della crescita e delle sorprendenti capacità di innovazione. Era portata a esempio di creatività e vitalità. Oggi scopriamo invece di essere agli ultimi posti in Europa proprio nella crescita e nella innovazione.
di Alessandro Ovi
è vero che abbiamo la Ferrari, le macchine utensili, i robot esportati perfino in Giappone, i grandi stilisti. è vero che la nostra presenza al Museo d’Arte Moderna di New York è ancora ricca e che il «premio» del Made in Italy è sempre straordinario. Ma se tutto si riduce a un sia pure preziosissimo marchio, è grave il rischio che le fondamenta del nostro sistema produttivo non siano abbastanza solide da sostenere i grandi volumi che la globalizzazione comporta. Sotto le nostre eccellenze non c’è solidità diffusa, un tessuto innovativo e produttivo in grado di alimentarsi con forze creative nuove.
La situazione sembra essere diventata all’improvviso precaria. Il dollaro debole e la concorrenza dei prodotti a basso costo dall’Asia sono problemi seri, ma comuni agli altri paesi europei. Eppure noi stiamo peggio. Perché? Perché oggi per emergere servono due qualità: la «profondità del sapere e la larghezza degli orizzonti nel fare. E noi in entrambi i casi siamo carenti.
Primo punto: la profondità del sapere. Per generare crescita e creare posti di lavoro con i prodotti evoluti, il design non basta; bisogna farsi pilotare dalle tecnologie di frontiera. Noi non ne siamo più capaci. Una volta un perito meccanico creativo e intraprendente imparava la tecnologia in fabbrica e poi la trasferiva in una sua azienda diventando imprenditore. Oggi la maggior parte dei nostri giovani non ha conoscenze sufficienti nella comunicazione, nelle scienze della vita, nelle nanotecnologie; è di fatto tecnologicamente analfabeta e non sa leggere tra le righe della innovazione. Nessun aiuto le arriva dalle grandi aziende perché non ce ne sono quasi più.
Secondo punto: la larghezza degli orizzonti. Per esempio, la ricchezza del nostro paesaggio, del tessuto storico e culturale e della connessa qualità della vita sono un tesoro ricchissimo. Ma se il tutto non viene inserito in una rete di trasporti e accoglienza assai più larga di quella oggi esistente, resterà un tesoro inutilizzato.
Purtroppo la maggior parte dei nostri operatori del settore non ha saputo crescere, o non ha voluto. Diventare grandi, avere connessioni in tutto il mondo pare non interessare. Pochissimi lavorano in funzione della larghezza degli orizzonti.
Non si può accettare l’idea che a noi manchino le capacità di essere profondi e capaci di visioni grandi, perché non è vero. Vi sono tanti casi di impegno entusiasta nel volontariato, nella creatività industriale e artistica, nella ricerca scientifica anche se fatta in condizioni molto difficili. Però, anche se le potenzialità ci sono, non c’e dubbio che la maggioranza dei giovani arranca o langue. è come se avessimo scelto di diventare passivi di fronte al cambiamento del mondo. è come se stessimo assistendo a un calo della nostra energia vitale. La colpa è in parte del tessuto produttivo che non assorbe nuove competenze, ma soprattutto è del sistema formativo allargato, dalla scuola alla televisione, che non è adeguato ai tempi.
Come si dice al MIT, «l’educazione ha molto a che vedere con i sogni», perché solo dai sogni nascono creatività, innovazione e sviluppo. Da noi evidentemente o non si insegna più a farne o si insegnano quelli sbagliati.