Tra le convergenze disciplinari proposte dal pensiero contemporaneo, particolarmente significativa appare quella del paradigma immunologico, che prospetta una nuova concezione del corpo e del mondo, basata non più su opposizioni “territoriali”, ma su trasposizioni “ambientali”.
di Gian Piero Jacobelli
Al di là delle enunciazioni programmatiche e di talvolta pretestuose assonanze terminologiche, non c’è dubbio che nella presente rivoluzione epistemologica si stiano moltiplicando le convergenze concettuali tra alcuni settori scientifici di carattere più speculativo e alcuni orientamenti filosofici che alla scienza riservano sistematiche attenzioni.
Resta il problema di capire se queste convergenze, anche quando significative dal punto di vista concettuale, contribuiscano davvero a rimuovere le tradizionali barriere disciplinari, fornendo concreti contributi di metodo e di merito alla evoluzione sia della scienza, di questa o quella scienza, sia della filosofia, di questa o quella filosofia.
↳Ieri sono salite alla ribalta della pubblica opinione le scienze dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, da cui è scaturito un lessico ormai familiare anche in altri ambiti di conoscenza: dalla teoria del campo in fisica e in psicologia, per descrivere le diverse modalità di interazione, alla teoria dell’entropia, per misurare le dinamiche dell’ordine e del disordine in cosmologia e in sociologia, sino alla più recente teoria delle stringhe, che vorrebbe proporsi come una “teoria del tutto” unificando le molteplici forze e dimensioni del mondo.
Oggi è il turno delle scienze biologiche e, in particolare, della immunologia, che sta assumendo uno specifico rilievo sia nelle riflessioni sulla vita, sia in quelle sulla convivenza. Vivere e convivere rappresentano infatti le condizioni apparentemente, e paradossalmente, concorrenti di un contesto conoscitivo e operativo nel cui ambito, sino allo scorso decennio, la vita, per sopravvivere, sembrava inevitabilmente impegnata a difendersi dalle altre vite (batteriche o virali) che, di tempo in tempo, ne insidiavano gli andamenti fisiologici e la intrinseca consistenza, e persino dai suoi stessi eccessi degenerativi, di natura oncologica o autologica.
In altre parole, dove c’era vita, non avrebbe potuto esserci una stabile e duratura convivenza. Tuttavia, nell’orizzonte di una riflessione immunologica tanto più radicale, quanto più eversiva di questo schema conflittuale, si sta registrando una torsione concettuale che coinvolge sia il pensiero biologico, sia quello umanistico. Radicale ed eversiva, perché, da un lato, si ribadisce la importanza fondamentale di quella “memoria del proprio” che caratterizza tradizionalmente le cosiddette difese immunitarie; mentre, dall’altro lato, si conferisce a questa “memoria del proprio” una dimensione non più esclusiva, di un proprio concepito “territorialmente”, ma progressivamente inclusiva, di un proprio concepito “ambientalmente”, cioè proiettato non sulle singole componenti degli equilibri vitali, ma sulle logiche implicite negli equilibri stessi.
In effetti, il paradigma immunitario, che inizialmente si era ideologicamente imposto come un “naturale” fattore di separazione tra il proprio e l’improprio, ha finito per volgersi verso la problematica consapevolezza di quella funzione di “incorporazione” progettuale, che motiva e condiziona lo stesso riconoscimento delle differenze.
Già ne abbiamo ripetutamente parlato nella nostra rivista e a questi precedenti interventi, facilmente reperibili online mediante una ricerca di nomi e parole chiave, si può risalire per ulteriori ragguagli documentari e diversi approcci “di scuola”.
Sul versante biologico, tra gli altri, il Department of Biomedical Engineering della Johns Hopkins University di Baltimore, guidato da Jennifer H. Elisseeff, sta dimostrando la funzione che il sistema immunitario è in grado di svolgere per la ricostituzione di parti del corpo variamente deteriorate, proprio in forza di una “corporeità” non soltanto attuale e alternativa (il “corpo proprio” e il “corpo improprio”), ma virtuale e partecipativa (il “corpo che sono” e il “corpo che posso essere”).
Sul versante umanistico, Roberto Esposito, il filosofo italiano che più di altri ha voluto confrontarsi con la rivoluzione immunologica, ha ripetutamente criticato (Immunitas, 2002, Bìos, 2004, Communitas, 2006, tutti editi da Einaudi) una «lettura distruttiva – ed autodistruttiva – del sistema immunitario», prospettando «un angolo di visuale a partire dal quale si apre una prospettiva interpretativa radicalmente diversa». Secondo tale prospettiva, «il male va contrastato – ma non tenendolo lontano dai propri confini».
Le considerazioni conclusive di Esposito rispecchiano sostanzialmente quelle degli scienziati che sollecitano il corpo a non fare precariamente leva sulle proprie debolezze difensive – deboli sono anche le difese del proprio che all’occasione possono trasformarsi in difese dell’improprio – ma a farsi forte delle forze, anche contrastanti, del mondo: «Il corpo, tutt’altro che un dato definitivo e immodificabile, è un costrutto operativo aperto ad uno scambio continuo con l’ambiente circostante». Per cui, conclude Esposito, «sottratto alla sua potenza negativa, l’immune non è il nemico del comune – ma qualcosa di più complesso che lo implica e lo sollecita».
Immune, cioè etimologicamente esente da vincoli? No, proprio il contrario, nella misura in cui il vincolo non si pone come vincolante, ma come relazionalmente propulsivo.
Come si vede, il quadro dei passaggi in un verso e nell’altro dei diversi dipartimenti (in senso sia intellettuale, sia accademico) della conoscenza tende ad articolarsi in maniera sempre più intrigante e sollecitante. Resta da chiedersi se, al di là di sollecitazioni generiche e talvolta meramente nominalistiche, si possa parlare di apporti determinanti dall’una all’altra sponda del “grande fiume della conoscenza”, come lo chiamava Mao Zedong. Se, in altre parole, si tratti di un confronto in grado di inaugurare e supportare nuovi reciproci orientamenti dal punto di vista sia concettuale, sia operativo.
Se ne parlerà ancora, ovviamente, cercando nei prossimi mesi di promuovere in sedi anche diverse dalla nostra rivista un dibattito che, quale ne sia l’esito, sta progressivamente acquisendo un rilievo cruciale in quella che, alla stregua della convergenza digitale, si potrebbe definire come una vera e propria convergenza culturale.