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    Immersività: da una realtà all’altra

    A cosa è dovuto l’attuale successo di quel coinvolgimento mediatico estremo, mentale e fisico, che si definisce “immersivo”? Al desiderio di sottrarsi ai condizionamenti della vita quotidiana o alla speranza di poterli valutare e affrontare con criteri comparativamente più incisivi ed efficaci?

    di Gian Piero Jacobelli

    Tutto, oggi, è o deve essere “immersivo”: lo spettacolo deve essere immersivo, il giornalismo deve essere immersivo, il gioco deve essere immersivo. Paradosso dei paradossi, perfino il mondo, in cui siamo quotidianamente immersi, deve diventare immersivo, che evidentemente significa qualche altra cosa rispetto al mero esserci, al coinvolgimento della vita vissuta, alla partecipazione empatica nei nostri e negli altrui problemi. 

    In cosa consiste, dunque, questa fantomatica immersività?
    Per quanto concerne il versante tecnologico, quello che più direttamente ci riguarda, si possono individuare due modalità, una più tradizionale, connessa, per dirla formularmente, allo “spettacolo della realtà”, e una più innovativa, connessa alla “realtà dello spettacolo”.

    Nel primo caso, quello relativo allo spettacolo della realtà, il riferimento è al nuovo cinema, detto appunto immersivo, che tende a coinvolgere lo spettatore in una intensa esperienza spettacolare. Dal punto di vista visivo, tale operazione si basa sull’uso di riprese molto veloci, in avanti e indietro, mediante macchine da presa miniaturizzate. Dal punto di vista sonoro, l’effetto del surround aumenta la sensazione di immersione del pubblico nella realtà rappresentata. Questo cinema, spesso “brutale”, si giova di una sintassi narrativa concitata, che non comunica sequenze ordinate di eventi, articolati in evidenti rapporti di causa ed effetto, ma proietta lo spettatore in accadendimenti né prevedibile né spesso comprensibili.

    Nel secondo caso, quello relativo alla realtà dello spettacolo, non si può più parlare di spettatori che guardano un mondo tridimensionale da una sorta di finestra, vale a dire uno schermo  cinematografico o televisivo. Si deve piuttosto parlare di protagonisti di una realtà virtuale che consente di entrare nell’ambiente digitalizzato, mediante dispositivi di visualizzazione, che isolano dall’ambiente esterno, e sensori di posizione, che trasferiscono i movimenti dello spettatore nelle simulazioni ambientali da lui stesso selezionate.

    La realtà virtuale può essere considerata una interfaccia “esperienziale”, in cui la componente percettiva (visiva, tattile, cinestetica) si fonde con l’interattività.

    Come spesso avviene nella evoluzione tecnologica, se da un lato tecnologie nate per specifici obiettivi operativi tendono a diversificarsi, proiettandosi in altri contesti operativi, dall’altro lato, tecnologie che nascono su versanti opposti, come quello dello spettacolo, non immersivo, e del gioco, immersivo, tendono a confluire in un unico contesto funzionalmente articolato allo scopo di trattenere l’utente quanto possibile presso di sé.

    Per esempio, sta diventando di moda il cosiddetto video a 360 gradi, che, in una versione tecnologicamente ancora più avanzata, può trasformarsi in realtà virtuale, con opportuni visori e la conseguente immersività delle immagini. 

    Spettacoli sportivi e musicali, video turistici, spot pubblicitari fungono da prime pietre di paragone per capire se la scommessa sulla realtà virtuale, lanciata nel 1860 dal reverendo Dodgson (più noto come Lewis Carrol) con lo specchio di Alice e ripresa in anni recenti da Facebook e YouTube, abbia concrete possibilità di successo. 

    La prudenza nel valutare queste prospettive di mercato è d’obbligo, soprattutto quando incidono su quelle dimensioni relazionali che costituiscono, anche se per lo più inavvertite, le strutture portanti della convivenza.

    Abbiamo parlato di un “trattenere presso di sé”: un fenomeno che può presentare alcuni interessanti aspetti di rieducazione alla realtà, in sede di riabilitazione sia psicologica, sia motoria; ma può anche presentare aspetti problematici, di costrizione e di assuefazione. In una parola, di passività della persona nei confronti dell’ambiente mediatico in cui è indotta a operare. La persona, “ingannata” dalla tecnologia, tende infatti a percepire il prodotto digitale come un elemento del mondo reale, riducendosi quindi a un oggetto passivo della fruizione stessa.

    Recenti ricerche, per altro, dimostrano che il contenuto della nostra percezione non consiste in una ricezione passiva di stimoli, bensì nel risultato di un processo di strutturazione che tende a costruire una forma integrata e distinguibile della realtà. Anche la sensazione di presenza in un ambiente virtuale emerge da un processo di questo tipo, per cui l’utente riceve due diversi flussi sensoriali, uno proveniente dal mondo reale e uno dal mondo virtuale in cui è immerso, che si dialettizzano in ordine ai suoi obiettivi relazionali. In altre parole, si dovrebbe imparare a scegliere volta a volta il proprio mondo, concependolo come un potenziale modo di essere con gli altri.

    Abbiamo spesso rilevato come, nei confronti dei processi di digitalizzazione e della realtà virtuale, ci troviamo appena agli inizi di un processo che giorno per giorno accresce la sua velocità e la sua complessità, impedendoci per il momento qualunque giudizio di valore. Limitiamoci dunque a una mera considerazione di fondo, concernente le opportunità conoscitive e formative della esperienza immersiva.

    Strano, ma vero: l’intero corso della filosofia moderna scaturisce proprio da una sorta di simulazione immersiva. Quella narrata da René Descartes, il famoso Cartesio dei libri di testo, il quale alla metà del Seicento, nel 1641, riflettendo sui problemi fondamentali del rapporto tra il mondo immanente e il mondo trascendente e tra l’anima e il corpo dell’uomo, cominciò le sue Meditazioni metafisiche con una tipica esperienza immersiva: «come se, caduto all’improvviso in un gorgo profondo, non mi riuscisse né di poggiare il piede sul fondo né di risalire alla superficie».

    Da questa esperienza nasce il Cogito ergo sum, che fonda la lunga storia del soggetto occidentale come un storia di discesa in una realtà esclusivamente immaginaria e perciò assoluta, per poi risalire in quella realtà in cui i sensi e i pensieri tornano a confrontarsi con la relatività quotidiana, che va e viene. 

    In questo senso la meditazione cartesiana può fungere da metafora filosofica ed etica per chi si affaccia a una realtà certamente affascinante come quella virtuale, che però deve venire sottratta alla iniziale fascinazione per tornare a confrontarsi responsabilmente con le limitazioni e i condizionamenti della realtà reale.

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