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    Il sentimento del mondo

    Prosegue il dibattito sul realismo e sul pensiero debole.

    di Gian Piero Jacobelli

    Anche quando non è proprio nuovo, come questo Dall’ albero al labirinto, in cui sono solo sistematizzati e a volte rimanipolati saggi e interventi precedenti, ogni nuovo libro di Umberto Eco richiama l’attenzione degli studiosi e spesso suscita preziose polemiche.

    Anche in questo caso, il libro di Eco non era ancora giunto in libreria che Maurizio Ferraris, uno dei nostri filosofi più intraprendenti, sul supplemento domenicale del “Sole 24 Ore”, titolava: Eco dalle parole alle cose, un immaginario dialogo tra lo stesso Eco e lo scomparso Michel Foucault, per ribadire la tesi, ormai diffusa, che il pensiero debole non può essere debole al punto da perdere un qualche contatto con la realtà, se non altro quel contatto minimo che ci consente di mettere un piede davanti all’altro senza il timore di cadere nel vuoto. 

    In effetti, nell’ultimo dei saggi del nuovo libro, intitolato Il pensiero debole vs i limiti dell’interpretazione, Eco reagisce a una sua presunta e del tutto occasionale adesione alla ideologia del pensiero debole, sintetizzabile nella affermazione che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, rivendicando un punto di vista più articolato, che trova appunto nei limiti dell’interpretazione la sua più specifica enunciazione: perché, se l’interpretazione deve sottostare a dei limiti, ne risulta evidente che questi limiti appartengono a una testualità in qualche misura autonoma e imprescindibile: “Il problema è che cosa ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, che il Mondo sia solo effetto di linguaggio e, oltre che malleabile e debole, sia puro flatus vocis”. 

    Le risposte appaiono per la verità piuttosto deboli, nella misura in cui vengono espresse secondo una modalità negativa piuttosto che affermativa: non crediamo che il Mondo sia un mero effetto di linguaggio perché, in primo luogo, “una volta regolati i conti con il Mondo, ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis” e, in secondo luogo, perché “il principio ermeneutico che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni non esclude ancora che ci siano interpretazioni cattive”. 

    In realtà, le due ragioni addotte da Eco si sorreggono vicendevolmente soltanto in forza dei loro intrinseci limiti interpretativi: perché per discriminare tra interpretazioni buone o cattive bisogna intendere il soggetto di riferimento come “fantasticatore, mentitore, imitatore del nulla”, cosicché la sua irruzione sulla scena appaia come un fattore critico. In altre occasione, tuttavia, Eco aveva richiamato proprio la intersoggettivtà come l’unico criterio attendibile della verità, ma è evidente che il vento sta girando e che, sia pure con tutta l’intelligenza e la cautela che lo contraddistingue, anche Eco viene tirato per la giacchetta da quel fantasma positivistico di ritorno che caratterizza il pensiero contemporaneo e che, per esempio, trova un prevalente riscontro nelle cosiddette scienze cognitive. 

    Da questo punto di vista, appare tanto suggestiva, quanto problematica l’ipotesi del noto neurologo portoghese Antonio Damasio che “lo studio del modo in cui i pensieri inducono le emozioni, e viceversa le emozioni fisiche diventano quel genere di pensieri che noi chiamiamo sentimenti”, possa ricomporre l’unità di mente e corpo in una migliore comprensione della natura umana, da cui “dipenderebbe il successo o il fallimento dell’umanità”.

    Damasio si riferisce alla rivoluzionaria concezione spinoziana della unità di mente e corpo, ma bisogna intendersi, perché questa unità non significa che quanto avviene nella mente si riflette nel corpo e viceversa, come se si trattasse di entità diverse in grado di influenzarsi reciprocamente.

    Al contrario, significa che tutto avviene sia nella mente sia nel corpo, secondo le rispettive attitudini espressive: “la Mente e il Corpo sono una sola e medesima cosa”, scrive Spinoza nell’Etica, “che viene concepita ora sotto l’attributo del Pensiero ora sotto quello dell’Estensione”. 

    Come sintetizzava Gregory Bateson, il teorico del “doppio legame”, a proposito dei rapporti tra pensiero e mondo: “la mappa non è il territorio, il nome non è la cosa designata dal nome, il nome del nome non è il nome”. I livelli epistemologici della mappa e del territorio sono tra loro incompatibili: e, tuttavia, poiché la scelta di questo o quel livello epistemologico comporta un esercizio ermeneutico, che appartiene ai punti di vista individuali, è solo nel loro insieme che la realtà può venire complessivamente, e mai esaurientemente, definita.  

    I sentimenti della mente e le emozioni del corpo sono la stessa cosa, ma non riguardano la stessa cosa: i sentimenti rispondono alla variabile consistenza della mente, al senso di sé, e si declinano secondo la dimensione del soggetto; le emozioni rispondono al variabile movimento del corpo, al senso dell’altro, e quindi si declinano secondo la dimensione dell’oggetto.

    Un sentimento si esprime attraverso la sua descrizione letteraria e artistica; una emozione si esprime attraverso la sua descrizione somatica e fisiologica: entrambi i protocolli contribuiscono alla descrizione dell’evento, interpretandosi reciprocamente nella problematica del “fare”, che li integra entrambi, perché il fare catalizza la realtà e tutti i suoi possibili livelli di conoscenza, consapevoli e inconsapevoli. Nella misura in cui deriva dalla confluenza di un soggetto e un oggetto in un progetto, il fare si inquadra in una dimensione “est-etica” (neologismo formato da estetica più etica), che da un lato sintetizza la realtà in una nuova prospettiva di valore e dall’altro lato convoca intorno a questa verità l’attenzione e la partecipazione degli altri.

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