Il mondo è già cambiato, senza che ce ne rendessimo davvero conto, nonostante il ruolo pervasivo della tecnologia, la esplosione mediatica, la globalizzazione, e ci è voluto il distanziamento sanitario per farci comprendere come sia proprio con il presente che dobbiamo fare i conti per non perdere il contatto con gli altri, ma anche con noi stessi.
di Gian Piero Jacobelli
Da quanto si è diffusa la consapevolezza che dopo la epidemia del Coronavirus – un dopo comunque incerto e sussultorio – nulla sarà più come prima, il problema sembra focalizzarsi su due sentimenti contrastanti: la nostalgia per come era prima e che andrà necessariamente almeno in parte perduto nell’incalzare degli eventi, da un lato, e la speranza per ciò che deve venire, nonostante le preoccupazioni tanto sanitarie quanto economiche.
Forse, a pensarci bene, si tratta di due sentimenti, per così dire, anacronistici, perché entrambi presuppongono un distacco netto dal presente, una sua sottovalutazione in termini di capacità di rispondenza agli eventi, complessi e preoccupanti, che stiamo vivendo. Un distacco che può trovare, e in effetti sta spesso trovando, tanti buoni motivi, anche se, ovviamente, non deve diminuire il senso di responsabilità nei confronti di eventi che non sono ancora ricordi e non sono ancora scenari.
Né il senso di un passato rimpianto, dunque, né il senso di un futuro auspicato, ancorché incerto e sempre insidioso, ma il senso del presente. Non soltanto perché è nel presente che possiamo trovare riscontri concreti alle nostre aspettative, ai nostri progetti e all’impegno che poniamo in atto per perseguirli. Ma anche perché – e qui stanno forse le ragioni delle nostre frequenti fughe indietro e in avanti – in realtà il presente e già cambiato, in maniera così radicale da costringerci, volenti o nolenti, a una presa d’atto non sempre facile e sempre faticosa.
Basta rileggersi in sequenza le cinque riflessioni di Andrea Granelli, che abbiamo pubblicato la settimana scorsa, per rendersi conto di quanto stiamo già vivendo in un mondo largamente dissimile da quello che pensiamo di conoscere. Un mondo che ci impone nuovi criteri interpretativi e nuove modalità di approccio, per poterne sfruttare tutte le opportunità senza venire sopraffatti da un inevitabile disorientamento, almeno per le generazioni di più lunga memoria, e dal timore non essere più capaci di rispondere adeguatamente a quanto sta avvenendo giorno per giorno.
A questo proposito, Granelli ha parlato di “ambiente digitale”, i cui riferimenti risultano ovviamente diversi da quelli abituali nella loro pervasiva massa critica; e ha parlato, soprattutto, di “identità digitale”, intesa non tanto e non soltanto come la raccolta e la certificazione dei dati relativi a chi siamo, dove abbiamo vissuto e dove viviamo. Nella identità digitale tende piuttosto a prendere corpo chi ci sentiamo di essere; ovvero la pressoché infinita possibilità di conservare e rendere più facilmente disponibili i ricordi, le esperienze, il sistema di relazioni in cui siamo o siamo stati coinvolti.
Certo, bisogna familiarizzarsi con i nuovi media, abituarci a una mediazione – non soltanto con le cose, materiali o immateriali come le informazioni, ma anche con le persone – diversa da quella a cui eravamo abituati e a cui conferivamo un valore quasi esclusivo. Un valore implicito nelle espressioni proverbiali del “faccia a faccia” o addirittura del “bocca a bocca”, per esprime una relazione personale, se non addirittura intima.
Dobbiamo, in altre parole, assuefarci alla formulare e apparentemente paradossale equazione tra Hight Tech e Hight Touch, quasi che, dove la mediazione appare in sommo grado, proprio là si realizza una più intensa forma di personalizzazione.
In un articolo che abbiamo pubblicato qualche gionro fa, Tanya Basu e Karen Hao, di MIT Technology Review USA, raccontavano di una “festa da ballo virtuale” su Istagram, a cui partecipano decine di migliaia di persone, ballando insieme e con la stessa musica, anche se non nello stesso luogo, giovani e vecchi, ricchi e poveri: «Si respira ora una rinnovata disponibilità delle persone a intrattenere relazioni virtuali».
«Internet ci consente di mantenere un senso di normalità, sostenerci a vicenda e incontrarci», aggiunge Andrew Sullivan, CEO della non profit Internet Society. Il problema, in altre parole, non è tanto quello di fare qualcosa insieme, ma quello di sentirsi insieme, di fare fronte comune verso le avversità, di ballare all’unisono, trasformando una reclusione coatta in un esercizio tecnologicamente sofisticato di libertà.
Si tratta – come ha acutamente osservato Alberto Abruzzese in un lungo articolo apparso il 9 aprile su “Il Riformista” – «dell’incremento esponenziale delle relazioni di rete che ha clamorosamente sempre più affermato e insieme rafforzato il peso di forme relazionali di comunicazione accentuatamente personali. Piattaforme espressive nelle quali il noi perde terreno rispetto alle prime e seconde persone singolari o si fa espressione tribale».
In definitiva, il problema non sta, come molti vorrebbero credere e farci credere, nel fare di necessità virtù, ma al contrario, nel fare della virtù tecnologica una necessità personalizzante: un nuovo stile di vita più consapevole e più responsabile, ma anche più congeniale alle nostre diverse e imprescindibili vocazioni.
(gv)