Nello scrivere, e in particolare nello scrivere sulle diverse tastiere che il progresso tecnologico pone a nostra disposizione, si alternano l’uso dell’indice e quello del pollice: alternanza non soltanto funzionale, ma anche e forse soprattutto psicologica.
di Gian Piero Jacobelli
Forse a molti sarà sfuggita una notizia certamente marginale, apparsa all’inizio di ottobre sulla nostra Home Page. La notizia riguardava lo studio di un gruppo di ricercatori guidati da Kseniia Palin dell’Università di Aalto, in Finlandia, in merito alla velocità di digitazione dei messaggi, sulla tastiera di un desktop ovvero su quella di uno smartphone.
A quanto sembra, sullo smartphone si digita più in fretta e anche con meno errori, se non altro perché gli smartphone posseggono algoritmi di predizione testuale, di completamento automatico e di correzione ortografica. Ma i fattori prevalenti sarebbero quello della età – i giovani utilizzano meno le tastiere dei desktop e più quelle degli smartphone, che spesso caratterizzano le loro prime esperienze di scrittura – e quello delle modalità di digitazione che nei desktop avviene con tutte le dita o prevalentemente con gli indici e negli smartphone avviene con i soli pollici.
Ancora una volta si registra una correlazione non scontata tra le ovvie differenze generazionali e alcuni comportamenti che derivano dagli incessanti cambiamenti tecnologici, anche se questi ultimi possono avere esiti ambigui e talvolta contraddittori.
I ricercatori finlandesi notano come, nonostante che la scrittura con i pollici sulla tastiera degli smartphone suggerisca una diversa e più funzionale disposizione dei caratteri, magari in parte anche sul retro, i costruttori abbiano preferito conservare anche in questi nuovi dispositivi gestiti mediante i pollici la tradizionale disposizione denominata QWERTY (dalle prime lettere in alto a destra delle tastiere).
QWERTY perdura da centocinquanta anni, anche se nel corso dei decenni sono stati messi a punto numerosi progetti alternativi più funzionali e quindi anche potenzialmente più veloci e affidabili.
Le motivazioni addotte dallo studio non ci sembrano del tutto convincenti perché, se è vero che “l’abitudine la fa da padrona”, è anche vero che velocità ed efficienza rappresentano le più pressanti e condivise istanze valoriali dei nostri giorni. E allora?
Allora qualche anno fa, nel quarto fascicolo del 2012, quando la nostra rivista veniva realizzata ancora in formato cartaceo, su sollecitazione dei colleghi statunitensi pubblicammo un articolo intitolato, con una qualche preveggenza, “Tra pollice e indice”.
In quell’articolo, prendendo spunto dalla rivoluzione digitale – dove digitale allude al digit, cioè alla inglese cifra numerica, che a sua volta deriva dal dito in quanto strumento con cui si conta – ipotizzavamo che il passaggio tra l’impiego del pollice e quello dell’indice nell’esercizio della scrittura comportasse anche “il passaggio tra una modalità introvertita e una modalità estrovertita di comunicazione: “Se nelle vecchie tastiere si scrive usando l’indice, secondo una tecnica che può coinvolgere anche le altre dita, ma che comporta comunque una ‘indicazione’ dei simboli, alfabetici e grafici, sulle nuove tastiere minimaliste dei terminali mobili, telefonici o telematici, si scrive utilizzando il solo pollice e ‘raccogliendo’ la funzione comunicativa e le sue strumentazioni nel palmo delle mani, in un gesto che presuppone, almeno sotto il profilo psicologico, una maggiore intimità”.
In altre parole, se nell’impiego dell’indice per scrivere il mondo si dispone davanti a noi in un confronto aperto e dialettico di azioni soggettive e reazioni oggettive, nell’impiego del pollice la comunicazione sembra sottrarsi a questo confronto, risolvendosi in una comunicazione tra sé e sé, in cui le implicite connessioni tecnologiche si sostituiscono più o meno consapevolmente a quelle esplicite del “faccia a faccia”.
Si potrebbe forse concludere che la tendenza prevalente delle odierne, proliferanti opportunità comunicative implica un atteggiamento sintetizzabile nel “tirare il sasso e nascondere la mano”: un comunicare intensamente, talvolta coattivamente, celandosi tuttavia dietro le sempre più numerose e complesse mediazioni tecnologiche. Come se il comunicare implichi una sorta di senso di colpa che impone di mimetizzarsi nelle pratiche della comunicazione stessa, inclusa una gestualità più raccolta e meno espressiva.
A differenza dello studio finlandese, più incline a una declinazione operativa del pollice, in quel vecchio articolo concludevamo che sarebbe stato meglio, invece di irrigidire ed enfatizzare la emblematica alternativa tra pollice e indice, porre in atto un programmatico impegno per riunire metaforicamente le due dita nel segno della connessione affermativa: dell’OK, del va bene, del siamo d’accordo. Che però in questi ultimi anni ha assunto un carattere quasi utopistico, per cui quel gesto finisce per alludere a una sorta di cannocchiale attraverso cui gli altri e il mondo si guardano sempre più spesso “alla lontana”.
(gv)