Ci si continua a chiedere cosa ci aspetta dopo: come saremo cambiati noi o come sarà cambiato il mondo in cui viviamo dopo la pandemia che ci sta affliggendo; tuttavia questo dopo non riguarda soltanto il fare, ma anche il pensare: come penseremo o come non penseremo dopo?
di Gian Piero Jacobelli
Nonostante le ripetute raccomandazioni di chi ci governa, le prime pagine dei quotidiani continuano a riempirsi di notizie più o meno preoccupanti o incoraggianti sulla pandemia che ci sta aggredendo da alcuni mesi.
La questione resta controversa: da un lato la esigenza di sapere come stanno le cose, soprattutto se ci riguardano direttamente come quelle della salute; dall’altro lato la esigenza di non aggiungere alle insidie virali quelle mediatiche, spesso impigliate nelle panie di una concorrenza a oltranza, per cui se una testata continua ad alzare la voce, tutte le altre si sentono costrette a farlo.
Ma incide anche, nel confondere informazione e disinformazione, la conclamata agenda setting, quel fenomeno di “risonanza” tra media e pubblica opinione, che si traduce rapidamente in un fenomeno di “ridondanza”.
Ciò, appunto, sembra stia accadendo per il famigerato e fantomatico Coronavirus, un nome che è tutto un programma di una condizione dominante, in grado di incidere senza freni sulla nostra vita. Dove con “senza freni” vogliamo alludere non soltanto alle conseguenze sui comportamenti individuali che si compendiano nel vincolo del “distanziamento”, ormai diventato una sorta di mantra difensivo e offensivo al tempo stesso.
Né vogliamo alludere soltanto alle conseguenze sui comportamenti collettivi relativi ai luoghi e alle occasioni di incontro, ai rapporti di lavoro, ai vincoli imposti alla formazione di ogni ordine e grado, al tempo libero, alle attività culturali.
Vogliamo alludere piuttosto a quelli che, in sociologia come in medicina, si definiscono effetti di terzo grado: nel nostro orizzonte di discorso, non quelli relativi ai dati epidemiologici in quanto tali, né quelli relativi ai provvedimenti conseguenti, ma temporanei, bensì a quelli concernenti i modelli culturali in senso lato, quelli che tendono a trasformare sul medio e lungo periodo le relazioni tra gli uomini e tra gli uomini e il mondo.
In proposito, anche sulle nostre pagine online, si è in particolare discusso dei rapporti tra crisi sanitaria e crisi ambientale: rapporti non soltanto eziologici, ma anche programmatici. Vale a dire un modo diverso, congiuntamente locale e globale, di affrontare quei problemi che sembravano riguardare le prossime generazioni e che invece, nella attualizzazione della pandemia, appare evidente come riguardino tutti e subito.
Da qualche tempo, per altro, sta emergendo un altro argomento di discussione per noi particolarmente rilevante perché si riferisce all’impatto della scienza e della tecnologica sui sistemi formativi in senso lato. In particolare, sulla formazione scolastica, dove la dialettica tra presenza e assenza nei processi di digitalizzazione si sta facendo sempre più problematica, dividendo operatori e studiosi nell’ipotizzare una miscela praticabile e soddisfacente.
A noi oggi interessa soprattutto la ricerca intesa come elaborazione di un orizzonte al tempo stesso epistemologico e metodologico, in cui sembra rimessa in questione la tanto deprecata, ma continuamente implementata a livello accademico e professionale, divisione e talvolta opposizione di quelle che Charles Percy Snow oltre sessanta anni fa definì le “due culture”.
Che si ritorni a discutere della incongruità di tenere separati il discorso genericamente scientifico e quello genericamente letterario non comporta tuttavia qualche specifica determinazione a reintegrarli, per quanto appartengano entrambi alla tradizione umanistica e a partire dal secolo scorso si siano talvolta scambiate le parti. Dipende piuttosto e purtroppo dalle difficoltà che entrambi questi discorsi stanno affrontando nel tentativo, spesso infruttuoso, di fare fronte, in un modo o nell’altro, al progredire minaccioso del Coronavirus nei confronti della vita, ma anche della convivenza.
In realtà, i media offrono quotidianamente lo spettacolo deprimente di una classe politica che, oltre alla malattia del secolo, deve confrontarsi con la propria incompetenza e con la propria incoerenza, in forza delle perduranti divisioni interne e delle prevalenti preoccupazioni per la propria sopravvivenza.
Ma anche la classe dei competenti, quella dei tanti scienziati chiamati in causa, lascia trapelare non soltanto la ancora insufficiente comprensione di cosa stia succedendo, ma anche il carattere ideologico di molte disparità di valutazione, dovute al condizionamento di interessi professionali, istituzionali e ovviamente mediatici.
Insomma, se Atene piange, Sparte non ride; se la politica manifesta delle gravi carenze conoscitive e decisionali, anche la scienza non appare esente da difetti metodologici e deontologici. Da questo punto di vista, il Coronavirus sta diventando una cartina di tornasole dei partiti presi e delle loro carenze dialogiche, ma al tempo stesso si sta rivelando un vero e proprio catalizzatore dei processi di cambiamento in corso, anche quando inavvertiti o contrastati.
In questo senso si potrebbe parlare, un poco paradossalmente, di una nuova “etica virale”, giocando sulla ambiguità del suo significato, medico o metaforico, sottolineato proprio oggi sulla nostra Home Page da un interessante articolo di Abby Ohlheiser. Purché non si intenda l’etica in una dimensione moralistica e catechistica, ma come “un fuoco nel deserto”, intorno al quale possano convenire sia chi si conosce sia chi non si conosce, l’estraneo e lo straniero, per non dire il nemico, alla sola condizione di volersi scaldare insieme, rendendosi, in qualche lingua creola, reciproca testimonianza del desiderio di incontrarsi e di non dirsi addio.
Questa etica come principio di una verità impregiudicata e aggregante non sempre riesce ad affermarsi; talvolta quel fuoco si spegne, talvolta i comuni interessi rivelano di avere poco in comune. Ma si tratta di procedere per piccoli passi o passaggi. Di due in particolare ci sembra di cominciare ad avvertire qualche presagio.
In primo luogo, il passaggio da una logica del “nemico”, che per tanto tempo ha caratterizzato sia l’antropologia culturale, sia quella fisica, a una logica che potremmo definire “immunologica”: la consapevolezza che si vive comunque in un sistema integrato, in cui si scambiano continuamente i ruoli del proprio e dell’altrui.
Si pensi, per esempio e per tornare alla attualità sanitaria, alla constatazione che molte situazioni critiche derivano non dall’agente patogeno in quanto tale, ma dalla reazione eccessiva del sistema immunitario che, per così dire, si rivolta contro se stesso.
In secondo luogo, il passaggio da una logica “territoriale”, basata sulla difesa a oltranza dei propri pretesi interessi, a una logica “negoziale”, consapevole di come, per avere successo, non si debbano contrapporre i diversi obiettivi, ma ricercare e finalizzare un obiettivo comune.
In questo “primato della relazione”, reale o virtuale che sia, nulla esiste “in sé”, nella cristallizzazione di una riflessione narcisistica, ma sempre e soltanto “per sé”, nella rinuncia a ogni assolutizzazione conoscitiva e operativa per connettersi con altri “nulla”, diventando finalmente “qualcosa”.
(gv)