Tra exploit della cronaca nera e nuova percezione della paura.
di Mario Morcellini
Il tema della sicurezza è certamente uno dei più consistenti nuclei attorno ai quali si strutturano i nuovi bisogni sociali. Dal punto di vista del dibattito scientifico, chiedersi se i media esercitino un’effettiva influenza nel modo in cui essa è percepita nel pubblico conduce a una sola possibile risposta, oltre le incertezze degli studiosi e le dispute di scuola. è una risposta affermativa, non solo da un doveroso punto di vista di precauzione, ma per il corollario di implicazioni tutt’altro che marginali sul piano dell’osservazione sociale e della ricerca: ciò che accade nell’immaginario comporta comunque conseguenze sulla realtà.
In una società come la nostra, il livello di sicurezza percepita e il ruolo esercitato dai media nel processo di definizione della realtà, com’è ovvio, rappresentano temi particolarmente problematici e controversi, per almeno due distinti ordini di motivi. Il primo investe il modo in cui la sensazione di sicurezza si traduce in termini di qualità della vita e delle relazioni per gli individui; il secondo attiene alle dimensioni collettive del fenomeno, che – inevitabilmente – finiscono per interessare direttamente la politica e le istituzioni democratiche, aprendo inedite e rilevanti questioni di responsabilità.
La rilevanza dei problemi legati alla sicurezza nelle società contemporanee deriva dall’aumento dei rischi cui sono sottoposti gli individui, in conseguenza delle attività umane. In questo tipo di rischi rientra anche la criminalità, percepita come un’evenienza particolarmente grave proprio perché, per definizione, implica conseguenze imprevedibili. A sua volta, la minaccia del terrorismo radicalizza questa percezione, proprio perché esercita il suo potere disvelandosi come minaccia imponderabile: la vita dei contemporanei è costantemente dominata da un diffuso senso di incertezza che spesso si trasforma in paura.
La complessità dei sistemi moderni tende a creare effetti a catena non completamente controllabili a causa di decisioni politiche, innovazioni tecnologiche e processi collettivi, traducendosi in vulnerabilità per i cittadini. Che spesso manifestano in modo legittimo e talvolta rumoroso la consapevolezza dei rischi cui sono esposti e il rifiuto a esporsi.
La percezione del rischio non è legata semplicemente all’incidenza statistica degli eventi negativi, ma si costruisce e si determina soprattutto in relazione alle loro rappresentazioni sociali e al modo in cui queste sono rielaborate e diffuse dai media, creando paradossi ben noti tra gli studiosi. Rischi statisticamente più frequenti come quelli legati agli incidenti automobilistici sono spesso sottovalutati rispetto ad altri meno probabili (per esempio, essere feriti o uccisi in atti criminali). Il ruolo dei media è in questo senso oggettivamente centrale in termini di agenda (e dunque in qualche misura, ben al di là di una consapevole tematizzazione) perché scelgono e talvolta contribuiscono a risolvere le potenziali minacce alla sicurezza. Rappresentano una variabile attiva nella sua percezione da parte dei cittadini e nella definizione degli standard di sicurezza ritenuti accettabili.
In questo senso, la società è largamente orientata dalla messa in scena mediale del temi della sicurezza e del rischio. Messa da parte una volta per tutte la finta ingenuità di chi sostiene che i media rappresentino uno specchio del reale, c’è davvero da chiedersi se lo sguardo di questi ultimi sia davvero innocente, se cioè intorno al tema sicurezza le inadeguatezze del racconto chiamino in causa meccanismi di distorsione involontaria oppure una manipolazione della realtà in termini di scelte espressive, toni e decibel. Per affrontare correttamente un ragionamento critico sul concetto di sicurezza non è possibile prescindere dai suoi aspetti simbolici e mediali sullo sfondo della costruzione del consenso, che sempre più sta imponendo alla politica stili del discorso mediatizzati, capaci di metterla in contatto direttamente con la “pancia” del paese.
Negli ultimi anni si è, infatti, radicalizzata in Italia la tendenza dei media informativi a “raccontare” fatti legati alle bad news. Di fronte all’esplosione della “nera” come caso, c’è da chiedersi se questo fenomeno non enfatizzi o tenda a nascondere le reali dimensioni della minaccia alla sicurezza, o addirittura a “coprire”, come un indistinto brusio, altre questioni, forse più controverse dal punto di vista politico.
Tra gli elementi che oggi caratterizzano la rappresentazione mediale del crimine si registra una particolare attenzione verso gli aspetti più “morbosi”: l’efferatezza, il tipo di relazione tra vittima e carnefice, i dettagli più macabri. Sembra inoltre che la nuova cronaca nera tenga accese le telecamere per indugiare su questi aspetti anche nella più completa assenza di novità sostanziali sul singolo delitto, contribuendo a farne un “caso” mediatico. è accaduto per Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco. Fino al recente omicidio di Perugia. In quasi tutti questi casi, le prime vere novità investigative sono arrivate quando l’attenzione dei media aveva già superato il punto di massima saturazione e iniziato una parabola chiaramente discendente. Questi casi rappresentano – per un complesso insieme di motivi – dei “fuochi di paglia” mediatici, contraddistinti da una massiccia copertura dell’evento da parte dei media, ma circoscritto a un intervallo di breve durata (tipicamente, da una settimana a due mesi).
Ciò che colpisce maggiormente è come, a fronte di una certa stabilità e in qualche caso di una lenta diminuzione degli indicatori statistici sulla criminalità (pur con la significativa eccezione delle rapine), la rappresentazione mediale degli eventi criminosi è soggetta a notevoli fluttuazioni nel modo di trattare le notizie. Queste si manifestano sia da un punto di vista quantitativo, relativamente all’ampiezza nella copertura giornalistica degli eventi criminali, sia dal punto di vista qualitativo, riguardo alle modalità di costruzione del tema e delle sue cornici interpretative.
L’effetto è di creare dei “cattivi da telefilm”: personaggi che incarnano un’idea archetipica del male, anche quando non è provata l’effettiva colpevolezza delle persone sulle quali concretamente i media “appendono” un’etichetta stigmatizzante. Il rischio che si corre è quello di danneggiare irreparabilmente la vita di chi è coinvolto in questi casi, costruendo attraverso i media una presunzione di colpevolezza, che non trova riscontri nei risultati delle attività investigative né conferme nelle successive valutazioni della magistratura. Talvolta alimentano il clima che rende plausibile l’assurdità delle rappresaglie: è accaduto per i romeni pestati in un parcheggio all’indomani dell’omicidio a Tor di Quinto.
Paradossalmente, questa scarsa sistematicità nell’attenzione, che coglie solo l’inizio e i primi sviluppi delle storie, ma non il modo in cui si concludono, finisce inevitabilmente per suggerire anche l’impunità dei responsabili come un elemento di ordinarietà, un dato di fatto quasi scontato.
Non esiste, com’è ovvio, una spiegazione unica e plausibile di questo andamento così drasticamente fluttuante. L’Osservatorio di Pavia ha, infatti, rilevato una singolare discrepanza nella rappresentazione nei telegiornali del rapporto tra criminalità e immigrazione a cavallo del 2000/2001 (………………………………..). In buona sostanza, i dati affermano che il cambio di governance abbia sostanzialmente determinato un’espressiva contrazione, da un anno all’altro, delle notizie relative ai reati legati all’immigrazione.
I media, anziché contribuire a identificare e razionalizzare le minacce e le loro conseguenze sulla società, tendono a diventare formidabili volani di trasmissione per le paure dei cittadini. C’è il rischio più che concreto che diventino un instrumentum regni nella gestione delle paure sociali per finalità politiche, economiche o persino criminali. L’insistenza dell’informazione sulla cronaca nera, e in particolare sui delitti che riguardano le famiglie, suggeriscono l’idea di un mondo insicuro e costantemente minaccioso, in cui il male può annidarsi ovunque. I media contribuiscono a determinare effetti di coltivazione rispetto alle percezioni del pubblico, producendo un diffuso senso d’allarme e, talvolta, la stigmatizzazione di interi gruppi sociali.
La politica appare insicura e spaventata dalle campagne d’opinione messe in scena dai media. In mancanza di un proprio progetto culturale sul tema della sicurezza, il mondo della politica si trova costantemente a giocare di rimessa, lasciandosi coinvolgere nella consueta dinamica delle “dichiarazioni a caldo”, e lasciando che siano i media a dettare l’agenda dei temi oggetto di discussione pubblica.
La cronaca nera e il modo in cui essa è rappresentata nell’informazione tendono a oscurare le cause profonde che generano i fenomeni di criminalità, devianza e disagio in cui sono “incubati” i singoli eventi-notizia oggetto di tematizzazione da parte dei media. Inevitabilmente essi finiscono per apparire come “eccezionalità prive di causa”, manifestazioni individuali di follia o malvagità, e puntano alla sanzione morale in tempi brevi.
A complicare la questione vi è l’oggettiva difficoltà dell’associazione deontologica, cui nei fatti manca un’effettiva capacità di sanzionare gli abusi, con il rischio che, in forza di una malintesa libertà di stampa, si finisca per autorizzare il linciaggio morale delle persone coinvolte in fatti di “nera”, come ammonisce la controversa vicenda dei presunti abusi nella scuola dell’infanzia a Rignano Flaminio. Questo atteggiamento può trasformarsi in una indebita pressione nei confronti della magistratura inquirente, che, sotto la spinta delle campagne d’opinione si è trovata in più di un’occasione a operare al di fuori delle garanzie costituzionali, in passato giudicate invalicabili. Gli esempi sono purtroppo numerosi, e, solo per citarne alcuni, vanno dalla diffusione di intercettazioni telefoniche sulla vita privata dei protagonisti di vicende di cronaca, sino all’intimidazione di testimoni da parte degli inquirenti per velocizzare la cattura dei responsabili.