di Jane Qiu
In una nebbiosa mattina di gennaio dello scorso anno, dozzine di giornalisti da tutto il mondo si sono radunati fuori dal Wuhan Institute of Virology. La folla si è raccolta perché una squadra di esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità stava per visitare l’istituto per fare chiarezza sulle origini del covid-19.
L’istituto occupa un posto critico nella storia della pandemia di covid-19. Centro leader per la ricerca sul coronavirus, è stata la prima struttura a isolare il nuovo virus e la prima a sequenziarne il genoma. Uno dei suoi laboratori, guidato dalla virologa Shi Zhengli, lavora sui coronavirus che vivono nei pipistrelli e ha passato anni a sequenziare i genomi virali, isolando virus vivi e cercare di capire come potrebbero evolversi per acquisire la capacità d’infettare gli esseri umani. Negli ultimi 18 anni, il suo team ha raccolto più di 20.000 campioni da colonie di pipistrelli in tutta la Cina.
Il lavoro di Shi, che le è valso il soprannome di donna pipistrello, è stato al centro di polemiche. Alcuni hanno suggerito che i suoi campioni di pipistrelli potrebbero essere la fonte del SARS-CoV-2. Hanno affermato che il virus avrebbe potuto passare per Wuhan infettando uno dei membri del suo team nel loro lavoro sul campo raccogliendo campioni di pipistrelli. Oppure, alcuni ipotizzano, i virus vivi che il suo team ha coltivato in laboratorio, inclusi, cosa più preoccupante, quelli creati dalla manipolazione genetica, potrebbero essere la fonte della pandemia.
La missione del team dell’OMS era di esaminare quando e dove era iniziata l’epidemia e come il nuovo virus è passato agli esseri umani. Il rapporto, pubblicato lo scorso marzo, concludeva che era “estremamente improbabile” che il covid potesse essere stato causato da un incidente di laboratorio. La situazione più probabile era che il virus fosse passato dai pipistrelli agli umani tramite qualche animale intermedio.
I loro risultati, supportati da ricerche pubblicate su riviste peer reviewed e da studi in corso, suggeriscono che la pandemia è probabilmente niziata al mercato ittico all’ingrosso di Huanan dove venivano venduti animali vivi e dove è emersa la maggior parte dei primi casi di covid.
Non tutti sono d’accordo, ma la maggior parte dei virologi e degli esperti di malattie infettive, in particolare quelli che lavorano direttamente sulla questione delle origini, si appoggiano a questa teoria, salvo l’emergere di nuove prove che li persuadano diversamente.
Il trasferimento dagli animali agli esseri umani “è stato il modo in cui quasi tutte le principali epidemie sono iniziate negli ultimi decenni”, afferma Linfa Wang, collaboratrice di lunga data di Shi, esperta di malattie infettive emergenti presso la Duke-National University of Singapore Medical School e membro del team dell’OMS che nel 2003 ha indagato sulle origini della SARS, una malattia infettiva mortale causata da un coronavirus ora noto come SARS-CoV-1. Quella malattia ha contagiato 8.000 persone in tutto il mondo e ne ha uccise quasi 800 tra il 2002 e il 2004. “È un percorso comune e ben documentato”, afferma.
Ma un anno dopo la visita dell’OMS a Wuhan, chi investiga sulle origini della malattia deve ancora trovare l’animale colpevole o altre prove indiscutibili di origine naturale. I critici mettono in dubbio la conclusione del team dell’OMS anche perché uno dei suoi membri, Peter Daszak, presidente dell’EcoHealth Alliance, un’organizzazione no profit con sede a New York e sostenitore della teoria delle origini naturali, ha potenziali conflitti di interesse.
Le speculazioni sulla possibilità di un incidente di laboratorio sono aumentate. Ad infiammare i sospetti sono le preoccupazioni per le procedure di biosicurezza presso il laboratorio di Wuhan, le tensioni politiche tra Cina e Stati Uniti e la sensazione generale di scarsa fiducia nel governo cinese.
David Relman, esperto di microbiologia e biosicurezza presso la Stanford University, ha firmato insieme ad altri 18 scienziati una lettera pubblicata su “Science” lo scorso maggio in cui si chiedevano ulteriori indagini su un possibile incidente (Almeno due delle persone coinvolte in seguito si sono dissociate dalla lettera dopo aver visto come era stata utilizzata per promuovere la teoria della fuga del virus dal laboratorio).
Subito dopo, il presidente Joe Biden ha ordinato alla comunità dell’intelligence statunitense di intensificare la sua indagine sulle origini della pandemia. Il rapporto declassificato pubblicato in ottobre non ha raggiunto una conclusione definitiva.
A dicembre del 2020, un mese prima della visita dell’OMS, anch’io ho intrapreso una mia ricerca per capire il ruolo svolto da Shi. Come il team dell’OMS, non ho esaminato i congelatori o i registri di laboratorio di Shi, e quindi non posso provare o smentire se le attività associate alla sua ricerca abbiano causato la pandemia. Ma è utile sentire la versione dettagliata della storia da parte di Shi e del suo team per fare chiarezza in questo ginepraio.
L’incontro con la donna pipistrello
Ho incontrato Shi Zhengli di persona per la prima volta in un freddo pomeriggio di dicembre del 2020. Avevamo già parlato all’inizio di quell’anno a proposito di un articolo pubblicato su “Scientific American”. Ci siamo incontrate nel suo laboratorio. Shi mi ha indicato i congelatori dove il team teneva decine di migliaia di campioni di pipistrelli in zuppe chimiche e mi ha spiegato che i campioni contenenti virus vengono congelati sul campo, con ghiaccio secco o nell’azoto liquido, prima di essere trasferiti nel laboratorio di Wuhan.
Solo il personale designato può accedere a tali campioni, previo approvazione di due membri esperti del personale, ognuno dei quali è responsabile di una chiave separata per le due serrature. Tutti gli accessi ai campioni vengono registrati. Il fulcro della sua ricerca negli ultimi 18 anni, ha spiegato, è stato cercare i virus dei pipistrelli strettamente correlati alla SARS-CoV-1 e capire come potrebbero evolvere nuove funzionalità che consentano loro di infettare gli esseri umani.
Per vedere se i campioni sono portatori del virus si usa la PCR come nei test sul covid-19. Tutti i coronavirus contengono un gene che codifica per un enzima chiamato RNA polimerasi RNA-dipendente, o RdRp, che aiuta i virus a replicarsi facendo più copie dei loro genomi. Se la caratteristica RdRp si presenta in un campione di pipistrello, è un segno rivelatore della presenza di un coronavirus.
Sono rimasta impressionata dalla vastità della collezione di Shi: oltre 20.000 campioni di pipistrelli. Ma, come mi è stato spiegato, in media solo il 10 per cento contiene coronavirus e solo uno su dieci è strettamente correlato al SARS-CoV-1: finora, il team ha identificato circa 220 di questi virus. Questi risultati, affermano virologi come Edward Holmes dell’Università di Sydney, hanno fornito preziose informazioni sulla storia evolutiva dei coronavirus e sul modo in cui producono varianti genetiche.
Alle prese con il virus reale
Un modo importante per verificare se un coronavirus può evolversi in qualcosa di più minaccioso è vedere se la sua proteina spike, l’arma d’attacco che conferisce al virus un aspetto simile a una corona, può attaccarsi a una molecola chiamata enzima di conversione dell’angiotensina 2 o ACE2, che è presente sulla superficie delle cellule nella maggior parte dei vertebrati. Per scoprire il potenziale di un virus per infettare le persone, il team di Shi sequenzia la sua proteina spike, la confronta con quella della SARS-CoV-1 e studia su un computer la sua struttura e capacità di legarsi ad ACE2.
I ricercatori hanno anche utilizzato pseudovirus, virus la cui capacità di copiare i loro genomi è disabilitata, per verificare se la spike potesse aiutarli a entrare nelle cellule di vari animali. Scienziati di tutto il mondo utilizzano questo approccio per studiare nuovi agenti patogeni senza ricorrere a virus vivi. Gli esperimenti possono essere condotti con precauzioni di biocontenimento relativamente poco costose a un livello di biosicurezza 2 o BSL-2: i ricercatori indossano guanti e camici e lavorano in strutture con filtrazione dell’aria e sotto pressione negativa per mantenere i patogeni all’interno.
Il primo passo per questo tipo di lavoro è estrarre materiale genetico per il sequenziamento genomico, che inattiverebbe tutti i microbi nel campione. Questo e i successivi studi sull’ingresso cellulare che utilizzano pseudovirus sono metodi consolidati e sicuri. Ma le proteine spike non sono l’unico fattore che determina la capacità di un virus di infettare le cellule. Inoltre, questo tipo di approccio non può mostrare, per esempio, come un virus contagi le cellule, come si diffonda da una cellula all’altra o come un agente patogeno possa eludere la risposta immunitaria del corpo.
Queste domande, che sono fondamentali per lo sviluppo di farmaci e vaccini, possono essere affrontate solo utilizzando il virus completamente funzionante. Ed è questo lavoro più pericoloso che è diventato il centro della controversia intorno a Shi. Isolare i coronavirus vivi dai campioni di pipistrelli è notoriamente complicato, principalmente perché solo una piccola frazione dei campioni contiene una limitata frazione del virus, a differenza delle grandi quantità dei campioni di persone con SARS o covid.
Il processo di coltura dei virus consiste nel fornire loro cellule che possono infettare. Diversi laboratori in tutto il mondo hanno cercato di ottenere coronavirus di pipistrelli vivi e hanno fallito. Fino a gennaio del 2021, il laboratorio di Wuhan era l’unico ad esserci riuscito, secondo Stephen Goldstein, esperto di coronavirus dell’Università dello Utah a Salt Lake City. E la persona con il pollice verde era Yang Xinglou, un ricercatore del team di Shi.
Ho incontrato Yang al laboratorio BSL-3, che gestisce agenti patogeni meno mortali del vicino BSL-4, il fiore all’occhiello del lavoro di microbiologia del paese. Dopo una serie di controlli di sicurezza, siamo entrati in una sala con alcuni grandi schermi che mostravano gli altri ambienti per la coltura delle cellule, per la ricerca su piccoli animali come topi e ratti, e uno spazio dedicato per la disinfezione.
È stato qui, il 5 gennaio del 2020, che Yang ha isolato per la prima volta con successo la SARS-CoV-2 da un campione di un paziente. Yang lavora presso l’istituto con agenti patogeni in pipistrelli e roditori dal 2008, sviluppando e perfezionando tecniche di cattura dei virus. Ci sono stati molti fallimenti lungo la strada, ma nel 2012 ha centrato il jackpot: un campione che il suo team ha recuperato da una grotta di pipistrelli vicino a Kunming ha infettato con successo un tipo di cellule renali di scimmia chiamate Vero E6, che mostrano alti livelli di ACE2 sulla sua superficie. Una volta che un virus vivo era a loro disposizione, gli scienziati potevano verificare direttamente se rappresentava una potenziale minaccia.
È stata una svolta importante: per la prima volta i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che i coronavirus di pipistrello in una capsula di Petri potevano anche infettare cellule di altre specie, inclusi maiali e esseri umani, legandosi ai loro recettori ACE2. Il virus era identico al 95 per cento alla SARS-CoV-1. Il team lo ha chiamato WIV1 per indicare che è stato isolato presso il Wuhan Institute of Virology. Il loro studio, pubblicato su “Nature” nel 2013, ha fornito prove evidenti che la SARS-CoV-1 ha avuto origine nei pipistrelli.
In tutti i suoi anni di lavoro, Yang è riuscito a isolare solo tre coronavirus di pipistrello, tutti parenti stretti della SARS-CoV-1. Più recentemente, il team è riuscito a sintetizzare tre coronavirus di pipistrello dalle loro sequenze genomiche. Tutti e sei sono parenti stretti della SARS-CoV-1. Nessuno di loro, secondo i virologi con cui ha parlato “MIT Technology Review”, avrebbe potuto essere la fonte della SARS-CoV-2: sono semplicemente troppo diversi.
C’era, tuttavia, un altro virus in un campione di pipistrello che è molto più vicino alla SARS-CoV-2, identico al 96 per cento. Ha una storia curiosa e, in alcune parti della comunità scientifica e oltre, è diventato uno dei principali sospettati nella caccia alle origini della pandemia. Si chiama RaTG13.
Il mistero della miniera
Alla fine di aprile del 2012, una strana malattia emerse da una miniera di rame abbandonata vicino alla città di Tongguan nella contea di Mojiang, una regione della provincia sudoccidentale cinese dello Yunnan. Sei lavoratori che stavano ripulendo il guano di pipistrello nella miniera si ammalarono di sintomi simili alla polmonite – tosse, mal di testa, febbri e arti doloranti – e furono ricoverati in un ospedale di Kunming, il capoluogo di provincia. Uno morì in 12 giorni e due si ripresero in un mese, seguiti da un altro decesso il 12 giugno.
Una settimana dopo, il principale esperto di pneumologia del paese, Zhong Nanshan, si unì a una consultazione clinica a distanza con i colleghi dell’ospedale di Kunming per definire una terapia per i due pazienti del Mojiang. Zhong, l’ex direttore del Guangzhou Institute of Respiratory Diseases, aveva svolto un ruolo determinante nella lotta contro la SARS. Il medico notò immediatamente che i test di laboratorio dei minatori e le scansioni TC erano straordinariamente simili a quelli dei pazienti con SARS, ormai scomparsa dal 2004.
I medici di Kunming, ha raccontato Shi, sospettavano che un fungo avesse causato la loro malattia. Zhong, che riteneva potesse essere coinvolto un virus, chiese allora al team di Shi di testare i campioni dei pazienti per le infezioni virali, ma non venne rilevata la presenza di alcun virus conosciuto. Nel 2020, con l’infuriare della pandemia, alcuni scienziati, tra cui Relman di Stanford, si sono chiesti se Shi si fosse sbagliata.
Questo sospetto è stato rafforzato nel maggio del 2020, quando l’anonimo proprietario di @TheSeeker268 su Twitter, ha scoperto su Internet una tesi di dottorato del 2016 di Huang Canping, un studente di George Gao, direttore generale del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie a Pechino, in cui si citava l’Istituto di virologia di Wuhan e si affermava che quattro dei minatori del Mojiang avevano anticorpi contro la SARS-CoV-1.
Scienziati come Monali Rahalkar, esperta di ecologia dei microrganismi presso il MACS Agharkar Research Institute di Pune, in India, e convinta sostenitrice della teoria della fuga del virus dal laboratorio, ne hanno tratto conferma del fatto che i minatori fossero contagiati da un coronavirus simile alla SARS. I social media e la stampa hanno avanzato il sospetto che Shi avesse cercato di nascondere il fatto.
Gli scienziati direttamente coinvolti nel lavoro negano questa speculazione. Shi ha detto che il suo team non ha trovato tali anticorpi, anche se ha affermato che alcuni dei primi test hanno prodotto falsi positivi che sono stati corretti quando i test sono stati completamente convalidati. Gao ha affermato che il suo laboratorio non ha mai analizzato lo stato degli anticorpi dei minatori e che la dichiarazione di Huang, probabilmente basata sui risultati di falsi positivi, di cui Shi ha discusso in una riunione interna nel 2012, era errata. Dopo che il covid ha colpito, il team di Shi è tornato ai campioni del Mojiang per cercare tracce di proteine della SARS-CoV-2 e non ne ha trovate.
Non è insolito che le malattie respiratorie abbiano una causa sconosciuta, ma anche se Shi non riusciva a capire cosa avesse fatto ammalare i minatori di Mojiang, il suo istinto le disse che stava succedendo qualcosa di anomalo. “Quali virus erano in agguato nella grotta?” ricorda di essersi domandata. Tra il 2012 e il 2015, la sua squadra ha intrapreso più di una mezza dozzina di viaggi nel pozzo della miniera, a circa 1.700 km da Wuhan, e ha raccolto 1.322 campioni di pipistrelli.
Hanno cercato il gene RdRp specifico del coronavirus e, quando lo hanno trovato, hanno indagato ulteriormente. Alla fine, i campioni di pipistrello si sono rivelati contenere quasi 300 coronavirus. Otto dei nove appartenevano allo stesso gruppo di virus della SARS-CoV-1, tranne un campione denominato 4991, anche se i loro geni RdRp erano abbastanza diversi: erano “cugini lontani”, ha spiegato Shi.
Nel 2018, però, il 4991 è tornato alla ribalta. Il Wuhan Institute of Virology aveva acquistato una nuova macchina di sequenziamento, che ha reso molto più veloce ed economico ottenere una visione completa dei segreti genomici di un virus, e 4991 è stato tra i primi lotti di campioni ad essere sequenziato con il nuovo dispositivo. L’analisi ha confermato che il virus del campione era molto diverso dalla SARS-CoV-1. Nella maggior parte dei casi, quella sarebbe la fine della storia: il virus oscuro e irrilevante sarebbe svanito nell’oblio. Solo che non è stato così.
Il tarlo del sospetto non molla la presa
Il 30 dicembre del 2020, i medici del Wuhan Jinyintan Hospital, il centro per le malattie infettive della città, hanno inviato campioni all’istituto di virologia per un’analisi urgente. Si trattava di sette pazienti in gravi condizioni che erano stati recentemente ricoverati in ospedale per una misteriosa polmonite.
Il giorno successivo, il 31 dicembre, la Commissione sanitaria municipale di Wuhan ha rilasciato la sua prima dichiarazione pubblica sull’epidemia, affermando che stava indagando la causa di 27 casi di polmonite. Il laboratorio di Shi, uno dei quattro designati ufficialmente per indagare sulle cause della nuova malattia, è stato il primo a trovare i geni RdRp del coronavirus in cinque dei sette campioni di pazienti.
Si trattava di una sequenza, ora nota come WIV04, che faceva parte di un coronavirus. Shi l’ha inserita nei database istituzionali e internazionali per vedere se fosse nuova. La corrispondenza più vicina è stata la sequenza del campione 4991, che il team aveva prelevato nel Mojiang nel 2013. Il virus, non più oscuro o irrilevante, ora meritava un nome ufficiale. Il team lo ha chiamato RaTG13: Ra per la specie di pipistrello in cui è stato trovato, Rhinolophus affinis, TG per Tongguan, la città dove è stato scoperto e 13 per l’anno. Era, come riportato su “Nature” un mese dopo, identico al 96 per cento al coronavirus trovato nei nuovi pazienti.
Il fatto che RaTG13 sia così simile alla SARS-CoV-2 ha destato sospetti. Critici come Alina Chan, una biologa molecolare specializzata in terapia genica presso il Broad Institute of MIT e l’Università di Harvard a Cambridge, in Massachusetts, si chiedono perché l’articolo di “Nature” di Shi pubblicato nel febbraio del 2020 non abbia menzionato che RaTG13 proveniva dalla miniera del Mojiang da dove erano arrivate le persone con la misteriosa polmonite. Chan è una delle firmatarie della lettera di “Science” in cui si chiedono ulteriori indagini e nel suo libro Viral, scritto in collaborazione con Matt Ridley, ha sostenuto che l’istituto di Wuhan era stato “reticente”.
Shi ha tentato di allontanare questo tipo di sospetto pubblicando su “Nature” un addendum che descriveva in dettaglio i suoi studi sul Mojiang per dimostrare che il team non aveva rilevato alcun segno di infezione da coronavirus nei campioni dei minatori. Ma la polemica non si è fermata. Secondo un articolo pubblicato su “Cell” lo scorso settembre, scritto da circa due dozzine di importanti virologi ed esperti di malattie, la somiglianza generale tra i due virus non è la prova che RaTG13 sia la fonte del covid-19.
I due virus possono essere correlati, ma si trovano su rami evolutivi diversi che si sono discostati mezzo secolo fa, afferma David Robertson, virologo dell’Università di Glasgow nel Regno Unito. “RaTG13 non avrebbe potuto trasformarsi naturalmente in SARS-CoV-2“, dice. Nessuno avrebbe potuto utilizzare RaTG13 come spina dorsale per progettare SARS-CoV-2, come hanno affermato alcuni sostenitori della teoria della fuga del virus da un laboratorio: i due virus sono diversi in circa 1.100 nucleotidi sparsi su tutto il loro genoma, un divario troppo grande per operazioni simili.
Nel frattempo, le prove a favore della teoria delle origini naturali continuano a crescere. Nell’ultimo anno, diversi team indipendenti dall’istituto di Wuhan hanno scoperto più di una dozzina di parenti stretti di SARS-CoV-2 in Cina, Giappone, Laos, Thailandia e Cambogia. In un documento preliminare pubblicato nel settembre del 2021, un team di scienziati laotiani e francesi ha riportato la scoperta di virus in Laos che, secondo Robertson, condividevano un antenato comune con SARS-CoV-2 solo dieci anni fa. Queste nuove scoperte sono la prova che SARS-CoV-2 molto probabilmente si è evoluto in natura, afferma Robertson.
Ma anche se nessuno dei campioni di coronavirus dei pipistrelli del team di Shi è responsabile della pandemia, non sono gli unici virus con cui gli scienziati lavorano. Parte della loro ricerca riguarda lo studio di come funziona il meccanismo dei virus, che ha comportato la miscelazione genetica e l’abbinamento di diversi agenti patogeni per sondare la funzione dei geni virali. Uno di questi virus chimerici potrebbe essere stato la fonte della pandemia? Ancora una volta, Shi poteva dare una risposta.
Armeggio genetico
Shi era particolarmente interessata a sapere se la proteina spike fosse l’unico fattore che influenzava la capacità di un coronavirus di infettare le cellule o se anche altre parti del genoma dell’agente patogeno avessero un ruolo. Una delle sue sequenze di coronavirus di pipistrello, SHC014, sembrava l’ideale per una simile indagine.
Era identica al 95 per cento a SARS-CoV-1 in tutto il genoma, ma la spike era molto diversa e gli studi sullo pseudovirus hanno dimostrato che non era in grado di facilitare l’ingresso nelle cellule di diverse specie, compreso l’uomo. Questo significava che non era in grado di infettare gli esseri umani?
Gli scienziati non hanno potuto rispondere a questa domanda direttamente perché non erano riusciti a isolare un virus vivo dal campione di pipistrello. Ma due approcci genetici potevano aiutare a fare luce. Uno era sintetizzare il virus dalla sua sequenza genomica, l’altro era vedere se SARS-CoV-1 potesse ancora causare la malattia se la spike fosse stata sostituita con quella di SHC014.
Shi non disponeva degli strumenti necessari per svolgere questo tipo di armeggio genetico, quindi nel luglio del 2013 ha iniziato una collaborazione con Ralph Baric, un esperto di genetica virale dell’Università della Carolina del Nord, a Chapel Hill, che ha portato a una pubblicazione su “Nature Medicine” nel 2015.
I risultati sono stati sorprendenti: sia la chimera sintetizzata SHC014 che la chimera SHC014 della SARS-CoV-1 erano in grado di infettare le cellule umane e contagiare i topi. Entrambi apparivano meno letali della SARS-CoV-1, ma l’aspetto più preoccupante era che i farmaci e i vaccini esistenti efficaci contro la SARS non erano stati in grado di contrastarne gli effetti.
Nel frattempo, il team di Shi stava tentando di portare avanti un progetto simile finanziato dal National Institutes of Health degli Stati Uniti, che mirava a stabilire quali ingredienti genetici potevano consentire ai virus dei pipistrelli di causare malattie simili alla SARS negli esseri umani. Ma mentre Baric nell’articolo di “Nature Medicine” si è concentrato sull’agente patogeno umano della SARS-CoV-1, Shi ha usato solo i suoi parenti di pipistrelli, principalmente W1V1, il primo coronavirus di pipistrello che il team aveva isolato.
Il loro rischio nel mondo reale per gli umani era sconosciuto. Quando è scoppiata la pandemia, il suo team aveva creato un totale di una dozzina di virus chimerici scambiando la spike di WIV1 con la sua controparte da sequenze appena identificate di coronavirus di pipistrello, solo una manciata dei quali poteva infettare le cellule umane in una capsula di Petri.
C’erano altre sorprese in serbo. In un esperimento inedito, pubblicato dal NIH in risposta a una causa sul Freedom of Information Act intentata da “The Intercept”, i ricercatori hanno testato la capacità di tre di queste chimere di contagiare i topi che esprimono ACE2 umano. Rispetto al loro ceppo parentale, WIV1, i tre virus chimerici sono cresciuti molto più rapidamente nei polmoni del topo nella fase iniziale dell’infezione. Le differenze hanno sorpreso Shi, ma ciò che l’ha lasciata perplessa di più è stata che la chimera che causa la maggior perdita di peso nei topi infetti, un indicatore della sua patogenicità, era WIV1-SHC014, la cui spike era la più dissimile da quella di SARS-CoV-1.
I risultati degli studi genetici nei laboratori di Baric e Shi, entrambi in collaborazione con l’EcoHealth Alliance di New York, hanno fornito prove convincenti che la proteina spike non è l’unico fattore per determinare se un virus può contagiare un animale, affermano i ricercatori. “Non possiamo valutare il potenziale di emergenza dei virus usando solo test di pseudovirus o previsioni basate su sequenze genomiche e modelli molecolari”, ha spiegato Shi.
Nessuna delle chimere create nel suo laboratorio era strettamente correlata al SARS-CoV-2 e, quindi, nessuna avrebbe potuto essere la causa della pandemia. Ma sembra che il team abbia creato almeno un virus chimerico, WIV1-SHC014, con un guadagno funzionale, ovvero una maggiore patogenicità, rispetto al ceppo parentale, WIV. Critici come Richard Ebright, un biologo molecolare della Rutgers University, considerano questo come il tipo di ricerca sul guadagno di funzione che dovrebbe essere soggetta a una rigorosa supervisione normativa.
Ma Shi afferma che in nessuno di quegli studi, comprese le sue collaborazioni con Baric e con EcoHealth, i team intendevano creare virus più pericolosi. Al momento della proposta non era stato previsto che avesse una maggiore trasmissibilità o patogenicità negli animali. La sovvenzione che Shi ha richiesto congiuntamente con l’EcoHealth Alliance non rientrava nell’ambito del quadro normativo sul guadagno di funzione.
Virologi come Goldstein dell’Università dello Utah sostengono che tali studi genetici potrebbero aiutarci a proteggerci da future pandemie. L’anno scorso, i gruppi di ricerca, tra cui quello di Baric, hanno dimostrato la possibilità di sviluppare i cosiddetti vaccini pan coronavirus, che potrebbero bloccare contemporaneamente SARS-CoV-1, SARS-CoV-2 e altri parenti che devono ancora essere identificati.
Lo scorso settembre, NIH ha annunciato un finanziamento di 36,3 milioni di dollari per promuovere tale lavoro. La scoperta di nuovi virus in natura e l’utilizzo di tecniche genetiche per sondare il loro funzionamento in laboratorio, affermano i ricercatori, potrebbe indicare modi per mitigare e trattare futuri focolai di malattie simili alla SARS e al covid-19.
Sfide di biosicurezza
Anche se nessuno di quei virus chimerici è stato la fonte del covid, ci sono ancora preoccupazioni sul fatto che gli standard di biosicurezza nel laboratorio di Wuhan potrebbero non essere stati abbastanza rigorosi da impedire alle attività di ricerca di causare la pandemia. Gli studi che coinvolgono virus vivi e modifiche genetiche sono intrinsecamente rischiosi.
Gli incidenti possono accadere anche con le più rigorose precauzioni di biosicurezza in atto. Gli scienziati potrebbero subire il contagio inavvertitamente in laboratorio e la miscelazione e l’abbinamento genetico potrebbero inaspettatamente creare un superbatterio in grado di superare le barriere di biosicurezza.
Ho chiesto a Shi quali sono le regole che la Cina adotta per ridurre al minimo i rischi della ricerca e lei mi ha risposto che nel suo paese tutto viene valutato caso per caso”. Gli studi su SARS-CoV-1 e SARS-CoV-2, per esempio, devono essere condotti nei laboratori BSL-3, mentre i coronavirus umani che causano il comune raffreddore sono gestiti in condizioni BSL-2. E i virus dei pipistrelli?
I comitati per la biosicurezza dell’istituto di Wuhan hanno stabilito una decina di anni fa che mentre la ricerca con gli animali va condotta in condizioni BSL-3, il lavoro di coltura molecolare e cellulare che coinvolge i coronavirus di pipistrello può essere svolto in BSL-2, anche se in strutture di biosicurezza con filtrazione dell’aria e pressione negativa per mantenere i virus all’interno.
Alcuni scienziati, come Ebright, ritengono che queste misure siano insufficienti. A suo parere, mi ha scritto in un’e-mail i coronavirus dei pipistrelli sono, “agenti non caratterizzati” con virulenza e trasmissibilità sconosciute. “L’unico approccio accettabile è assegnare un alto livello di biosicurezza per poi abbassarlo solo se e quando viene stabilito che è prudente farlo”.
Altri, tuttavia, non ritengono che il lavoro di Shi indichi standard di biosicurezza permissivi in Cina. L’opinione dominante tra gli scienziati di tutto il mondo era, e in una certa misura è tuttora, che i coronavirus di pipistrello molto probabilmente avrebbero dovuto evolversi in un animale intermedio prima di poter infettare gli esseri umani. “Il comitato per la biosicurezza di ogni istituto deve bilanciare i rischi reali con i rischi potenziali”, afferma Rasmussen dell’Università del Saskatchewan, aggiungendo che all’epoca la designazione di biosicurezza dell’istituto di Wuhan era ragionevole.
Inoltre, non è raro che i laboratori di tutto il mondo coltivino virus animali non caratterizzati nelle strutture BSL-2. Sempre nell’e-mail, Ebright mi ha detto che le attuali linee guida statunitensi prevedono le regole BSL-3 solo per tre coronavirus: SARS-CoV-1, SARS-CoV-2 e MERS-CoV. Alcuni coronavirus animali contagiosi che possono infettare le cellule umane in una capsula di Petri, compresi i virus mortali dei maiali che hanno avuto origine nei pipistrelli, sono, come i virus di Shi, designati BSL-2. (Negli Stati Uniti, anche la coltura del virus della rabbia, un altro patogeno mortale che vive nei pipistrelli, rientra nelle attività BSL-2, anche se ha un tasso di mortalità di quasi il 100 per cento negli esseri umani).
I laboratori di alto livello cinesi devono affrontare altre sfide oltre alla difficoltà di effettuare valutazioni sulla biosicurezza. Il denaro è un problema importante. Sebbene ci siano spesso ampi finanziamenti per acquistare attrezzature all’avanguardia e costruire laboratori di alto livello come la struttura BSL-4 dell’istituto di Wuhan, gli scienziati spesso lottano per i finanziamenti per la formazione dei lavoratori o per coprire i costi di gestione.
Tali ostacoli non sono certo un segreto. Quando l’ambasciata degli Stati Uniti a Pechino ha inviato una delegazione a visitare l’Istituto di virologia di Wuhan all’inizio del 2018, i dirigenti dell’istituto si sono lamentati di questi problemi con il personale dell’ambasciata. E, in un documento del settembre del 2019, Yuan Zhiming, direttore della struttura BSL-4, ha illustrato il tipo di sfide dei laboratori di biosicurezza di alto livello in Cina.
Alcuni hanno dipinto tali sfide come un chiaro segno di standard permissivi. In un articolo pubblicato nell’aprile del 2020, l’editorialista del “Washington Post” Josh Rogin ha scritto che dopo la visita all’istituto di Wuhan nel 2018 i funzionari statunitensi hanno “inviato due avvertimenti ufficiali a Washington sull’inadeguata sicurezza in laboratorio”.
Secondo Rogin, fonti anonime che hanno familiarità con i cablogrammi non classificati “hanno affermato che avevano lo scopo di lanciare un allarme sui gravi problemi di sicurezza”, e un funzionario anonimo dell’amministrazione Trump gli ha detto che i cablogrammi “forniscono un’altra prova a sostegno della possibilità che la pandemia sia il risultato di un incidente di laboratorio a Wuhan”.
Diversi media mainstream hanno utilizzato le sue affermazioni come prova che l’istituto di Wuhan ha un record di pratiche di biosicurezza “lacunose” o “dozzinali”.I cablogrammi, che sono stati pubblicamente rilasciati diversi mesi dopo (con alcune parti oscurate), hanno messo in guardia sull’inadeguatezza del personale, ma non hanno identificato alcuna pratica pericolosa per la biosicurezza.
Uno di questi, inviato il 19 gennaio del 2018, menzionava la carenza di personale qualificato “necessario per operare in sicurezza in un laboratorio ad alto contenimento” in una sezione che discuteva di come la mancanza di lavoratori qualificati potesse “ostacolare la ricerca”. Un secondo cablogramma inviato tre mesi dopo, parlava di “opportunità di scambio di esperti”.
Il cablogramma di gennaio ha anche rilevato la capacità dell’istituto di Wuhan “di intraprendere ricerche produttive nonostante i limiti” e ha affermato che il lavoro “rende la sorveglianza continua dei coronavirus simili alla SARS nei pipistrelli e lo studio dell’interfaccia animale-uomo fondamentale per la futura previsione e prevenzione dell’epidemia di coronavirus emergente”.
Alcuni scienziati sono scandalizzati da ciò che percepiscono come una falsa rappresentazione dei cablogrammi dell’ambasciata. “Le preoccupazioni sollevate nel cablogramma non sembravano concentrarsi su problemi di sicurezza specifici o attività eclatanti all’interno del laboratorio da parte del personale attuale”, mi ha scritto in un’e-mail Jason Kindrachuk, esperto di malattie infettive presso l’Università di Manitoba a Winnipeg, in Canada.
Shi afferma che la mancanza di personale qualificato significa che la Cina non può sfruttare al meglio la struttura, ma non implica che stesse utilizzando personale non addestrato per lavorare nei laboratori BSL-3 o BSL-4. L’istituto di Wuhan, aggiunge, si attiene alle norme internazionali sulla governance della biosicurezza e la sua ricerca prima della pandemia era orientata ai virus dei pipistrelli strettamente correlati al virus SARS originale. “RaTG13 era il parente SARS-CoV-2 più vicino che avessimo mai avuto”, ha detto. “Non avremmo potuto far trapelare ciò che non avevamo”.
Shi ha anche negato che qualcuno del suo team abbia contratto il virus in laboratorio o sul campo. Tra l’inizio dell’epidemia a Wuhan e le prime vaccinazioni, mi ha detto, ogni membro del suo team è stato testato più volte per gli acidi nucleici virali per rilevare le infezioni in corso e per gli anticorpi che indicherebbero un’esposizione passata. “Nessuno è risultato positivo”.
Una politica alimentata dal pregiudizio
Molti scienziati sono costernati dal modo in cui Shi e il Wuhan Institute of Virology sono spesso ritratti nei media occidentali. Anche coloro che non hanno alcun legame con Shi o con l’istituto di Wuhan, come Robertson dell’Università di Glasgow e Rasmussen dell’Università del Saskatchewan, lo definiscono incredibilmente parziale e affermano che è guidato in parte da motivazioni geopolitiche e pregiudizi radicati.
Per esperti cinesi come Joy Zhang, sociologa dell’Università del Kent a Canterbury, nel Regno Unito, specializzata in governance scientifica in Cina, è difficile separare le accuse specifiche contro Shi dai sospetti generali sulla Cina. “Shi è una vittima della sfiducia occidentale nei confronti della Cina e della scienza cinese“, dice.
In alcuni casi, tale sfiducia viene espressa esplicitamente. Filippa Lentzos, esperta di biosicurezza al King’s College di Londra, mi ha detto nel febbraio dello scorso anno, e lo ha ribadito di recente, che “è semplicemente troppo tardi” per scoprire cosa è successo perché “tutti i dati, a partire da quelli nei congelatori del Wuhan Institute of Virology sarebbero stati cancellati o ripuliti”.
Shi trova queste accuse “prive di fondamento e per alcuni versi inquietanti”. Se è quello che pensano, allora non c’è niente che possiamo fare per convincerli del contrario”, ha spiegato. “Anche se dessimo loro tutti i documenti, direbbero comunque che abbiamo nascosto qualcosa o abbiamo distrutto le prove”.
Ma anche se la teoria delle fughe di laboratorio è in parte alimentata da una sfiducia profondamente radicata nei confronti della Cina, il discutibile livello di credibilità del paese e una sequenza di curiosi passi falsi non hanno aiutato.
Durante l’epidemia di SARS nel 2002-3, i funzionari cinesi ne hanno minimizzato l’entità per mesi fino a quando un eminente chirurgo militare ha denunciato la situazione. All’inizio del covid, la Cina ha oscurato le informazioni sui primi casi e ha represso il dibattito interno. Il livello più alto è stato raggiunto nel marzo del 2020, quando un certo numero di ministeri cinesi ha stabilito che gli scienziati dovevano chiedere l’approvazione per pubblicare qualsiasi lavoro relativo alla ricerca sul covid.
Nel frattempo, diverse istituzioni cinesi, tra cui il Wuhan Institute of Virology, hanno incaricato i loro scienziati, con rare eccezioni, di non parlare alla stampa. Per alcuni, è stato un sollievo. Condurre interviste su argomenti politicamente sensibili in inglese è proibitivo per molti madre lingua cinese, poiché qualsiasi errore linguistico, specialmente per quanto riguarda i tempi e i verbi ausiliari, può essere facilmente frainteso, con gravi conseguenze.
Allo stesso tempo, molti scienziati cinesi erano diventati riluttanti a parlare con i giornalisti occidentali per ragioni più semplici: la maggior parte dei giornalisti che li aveva contattati, dicevano, non sembrava comprendere la complessità dell’azione scientifica e mostrava idee preconcette.
Alcuni comportamenti hanno sicuramente alimentato i sospetti. Nel febbraio del 2020, per esempio, l’istituto di Wuhan ha messo offline i database dei virus che rimangono non disponibili per gli esterni, spingendo alcuni a suggerire che potrebbero contenere informazioni critiche per le origini del covid-19. Shi mi ha detto che la parte dei database che era stata pubblicamente disponibile prima della pandemia conteneva solo informazioni già pubblicate.
L’istituto di Wuhan, come organismi di ricerca in altre parti del mondo, disponeva di dati inediti che potevano essere condivisi su richiesta tramite portali per collaborazioni accademiche. Come l’istituto ha avuto modo di dichiarare, c’erano stati migliaia di tentativi di hacking e i responsabili IT erano davvero preoccupati che qualcuno potesse sabotare i database.
Tuttavia, afferma Zhang dell’Università del Kent, il comportamento della Cina deve essere compreso nel più ampio contesto politico, mediatico e culturale del paese. “Il primo istinto dei funzionari cinesi”, spiega, “è sempre quello di chiudere i canali di comunicazione”. Per loro, questa soluzione sembra spesso più sicura che affrontare gli eventi in modo proattivo. Diversi scienziati cinesi di spicco, che hanno chiesto di non essere nominati per paura di ripercussioni politiche, hanno confermato che l’atteggiamento è un riflesso della mancanza di fiducia tra i massimi leader cinesi.
Il suo ministero degli Esteri, per esempio, ha insinuato che i laboratori biomedici in una base militare nel Maryland potrebbero aver creato SARS-CoV-2 e averlo diffuso. Poi ci sono le falsità evidenti. I membri cinesi della missione dell’OMS hanno insistito nel loro rapporto sul fatto che “non sono state trovate segnalazioni verificate di animali vivi venduti al mercato di Huanan nel 2019”. Ma, a giugno, un articolo apparso su “Scientific Report” ha mostrato che animali vivi venivano venduti in diversi mercati di Wuhan, incluso quello di Huanan, appena prima della pandemia.
Molti scienziati in Occidente sono costernati da queste manipolazioni. Anche coloro che considerano altamente improbabile la teoria della fuga del virus da un laboratorio sono decisamente convinti che questo comportamento sia inaccettabile. “Se la Cina sta mentendo su questo, su cos’altro sta mentendo?” afferma un virologo che crede nella teoria delle origini naturali del virus.
Wu Zhiqiang, un virologo dell’ Institute of Pathogen Biology della Academy of Medical Sciences cinese e membro della missione dell’OMS, nega che il suo team abbia mentito. “Verificare il commercio illegale di specie selvatiche andava oltre lo scopo della missione scientifica”, afferma. “Gli studi sulle origini delle malattie”, aggiunge, “si basano sempre su dati incompleti, Ci vuole tempo e pazienza per apprendere la verità scientifica”.
Ad aumentare la sfiducia, tuttavia, è il ruolo di Daszak di EcoHealth Alliance. I suoi stretti legami con il laboratorio di Shi e il suo ruolo di membro del team internazionale della missione dell’OMS sono potenzialmente in conflitto. A febbraio, per esempio, ha detto a diversi media di essere rimasto colpito dall’apertura della Cina in un momento in cui il team era sottoposto a tremende pressioni per conformarsi alla narrativa cinese. Pur dando l’impressione di sapere molto bene cosa sta succedendo all’istituto di Wuhan, Daszak e la sua organizzazione hanno anche fornito dichiarazioni erronee sulle attività di ricerca.
Tali incidenti, affermano i critici, hanno sollevato dubbi sul fatto che Daszak abbia avuto un ruolo sproporzionato, o addirittura fuorviante, nella missione dell’OMS. Daszak sostiene che i suoi potenziali conflitti di interesse erano stati dichiarati all’OMS prima di unirsi al team della missione. EcoHealth Alliance, chiarisce, ha agito “con integrità scientifica e onestà”.
Una minaccia immediata
In un caldo pomeriggio di luglio dell’anno scorso, mi sono unita a Shi e al suo team in una battuta di caccia al virus in una grotta di pipistrelli nella provincia di Hubei. Per catturare i pipistrelli, i ricercatori hanno utilizzato una gigantesca rete realizzata con una sottile rete di nylon sospesa tra due pali. Finora, i risultati non sono stati esaltanti, anche se tra i pipistrelli di un’altra grotta nell’Hubei, si sono trovati virus simili alla SARS.
La ricerca cerca anche di determinare i rischi di esposizione che devono affrontare le popolazioni rurali. In studi precedenti, Shi e colleghi hanno scoperto che fino al 4 per cento delle persone che vivevano in prossimità dei pipistrelli e lavoravano a stretto contatto con la fauna selvatica nella Cina meridionale era stato infettato da pericolosi virus di origine animale, inclusi i coronavirus, e il tasso di infezione saliva al 9 per cento tra i macellai.
Il team laotiano e francese che ha scoperto i parenti stretti della SARS-CoV-2 hanno verificato che una persona su cinque che aveva avuto un contatto diretto con pipistrelli e altri animali selvatici aveva anticorpi contro il coronavirus.
Tali risultati suggeriscono che i virus strettamente correlati alla SARS-CoV-2 potrebbero diffondersi per quasi 5.000 km, dal Giappone alla Cambogia. Una combinazione di crescita della popolazione, commercio di animali selvatici, deforestazione dilagante e miglioramento dei trasporti in quei luoghi ha reso sempre più facile il passaggio degli agenti patogeni animali agli esseri umani.
Per monitorare il salto di virus tra le specie, affermano molti scienziati, la Cina dovrebbe basarsi sui risultati della missione dell’OMS e istituire sistemi di sorveglianza a lungo termine. Forse le fattorie nel sud della Cina che fornivano animali al mercato di Huanan dovrebbero essere controllate con attenzione, così come le specie note per essere sensibili alla SARS-CoV-2: zibetti, visoni, tassi, cani procione e persone che vivono vicino alla fauna selvatica o lavorano nel commercio di animali.
Come afferma uno dei partecipanti alla missione dell’OMS, Fabian Leendertz, esperto di malattie zoonotiche e direttore fondatore dell’Helmholtz Institute for One Health a Greifswald, in Germania, “oltre ad aiutare a stabilire le origini del covid si tratta anche di ridurre il rischio della prossima pandemia”.
Nel frattempo, secondo un portavoce dell’OMS, tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo e la teoria della fuga del virus da un laboratorio richiederebbe ulteriori indagini, potenzialmente con missioni aggiuntive che coinvolgono esperti di biosicurezza. Lo scorso novembre, l’OMS ha riunito un gruppo consultivo per valutare le origini del covid e delle future epidemie e per orientare gli studi sui patogeni emergenti. Il gruppo, afferma il portavoce, rilascerà la sua prima serie di raccomandazioni nelle prossime settimane.
Shi ora si rende conto della natura controversa del suo lavoro e concorda sull’urgente necessità di rafforzare la regolamentazione e la supervisione della ricerca che presenta dei rischi. Accoglie con favore un più ampio dibattito sociale sulla ricerca di nuovi virus in natura e sulla manomissione dei loro genomi in laboratorio, a cui alcuni esperti di biosicurezza si oppongono ardentemente.
Parlando con dozzine di scienziati, mi è diventato chiaro che le opinioni sulla teoria di una fuga del virus da un laboratorio dipendono in larga misura dal fatto che credano o meno a Shi. Alcuni la sostengono, in parte perché la conoscono come persona, in parte perché sanno le difficoltà del fare scienza in Cina. Altri, forse spinti da una profonda sfiducia nei confronti del paese asiatico, dai gravi problemi di biosicurezza e dal desiderio di maggiore trasparenza, vedono un tentativo deliberato di insabbiare un crimine.
Shi ha ricevuto numerose e-mail e telefonate anonime, persino minacce di morte. È stata definita una bugiarda, una “sterminatrice” e una complice del Partito Comunista Cinese (anche se non ne è membro). Nel maggio del 2020, si diceva falsamente che si fosse rifugiata in Francia con quasi 1.000 documenti riservati.
Le ho chiesto quanto l’hanno segnata gli ultimi due anni. Il suo viso da ragazza si è improvvisamente offuscato. “Ammiravo l’Occidente”, ha risposto. Pensavo fosse una società giusta e meritocratica. Pensavo fosse meraviglioso vivere in un paese in cui si può liberamente criticare il governo”.
“Cosa pensa ora?” ho insistito. “Oggi penso che se sei cinese, non importa quanto sei bravo nel tuo lavoro. Ho capito che la democrazia occidentale è ipocrita e che gran parte dei suoi media sono guidati da pregiudizi e strumentalizzazione politica”, ha detto di getto. “Quando la politica ha il sopravvento sulla scienza”, ha concluso, “allora diventa impossibile qualsiasi forma di cooperazione”.
Jane Qiu è una pluripremiata scrittrice scientifica indipendente con sede a Pechino ed ex Knight Science Journalism Fellow al MIT.
(rp)