Di tanto in tanto, anche a seguito di imperscrutabili logiche editoriali, tornano di attualità personaggi del passato prossimo, che come Ehrich Weisz, detto Houdini, acquistano un valore emblematico nel mai risolto dibattito sui limiti della scienza e della tecnologia.
di Gian Piero Jacobelli
A chi, come chi scrive, viene spesso tacciato, a ragione, di biblioholism – un neologismo reso popolare una ventina di anni fa da Tom Raabe per indicare l’incoercibile bisogno di acquistare, leggere, classificare, conservare, in una parola, “consumare libri in eccesso” – può capitare, viaggiando, d’imbattersi in libri vecchi e nuovi, noti o dimenticati, che offrono l’occasione di pensare e ripensare a problemi che sembravano ormai archiviati nella memoria storica, se non in quella mediatica.
In effetti, la resurrezione occasionale di vicende e protagonisti apparentemente dimenticati fa riflettere sugli interessi e sugli orientamenti prevalenti nella pubblica opinione, al di là delle più diffuse e autorevoli dichiarazioni di principio.
Mi è capitato d’incorrere in questo genere di riflessione quando, a distanza di pochi giorni, in due librerie di libri usati in Francia e negli Stati Uniti, mi sono ritrovato tra le mani due biografie del Grande Houdini, personaggio tanto famoso, al punto da diventare proverbiale, quanto controverso.
Controverso, perché le sue straordinarie abilità di “escapologo”, in grado di liberarsi da qualsiasi costrizione fisica, vennero talvolta impiegate per smascherare gl’inganni di spiritisti e illusionisti da strapazzo, ma talvolta vennero esaltate come il segno di una particolare elezione soprannaturale. Al punto che lo stesso Arthur Conan Doyle (padre letterario di Sherlock Holmes), il quale da convinto spiritualista aveva polemizzato a lungo con Houdini, dopo la sua morte si disse certo che sarebbe riuscito a convincerlo nell’oltretomba, come ricordano Beryl Williams e Samuel Epstein, autori del vecchio libro in copertina.
A cavallo tra due secoli quanto mai contraddittori – positivista l’Ottocento, ma incessantemente scosso da brividi mesmerici e metafisiche fughe in avanti; diviso il Novecento tra scientismo e scientologia – anche da questo punto di vista Houdini – che era nato nel 1874 a Budapest, da famiglia ebraica, e che è morto a Detroit nel 1926 – ha impersonato la sistematica contraddizione tra queste due anime del pensiero moderno, quella della scienza e quella della pseudoscienza, quella della tecnologia, che lo agevolava nelle sue spettacolari esibizioni, e quella della magia, che il suo stesso pubblico adorante gli chiedeva di testimoniare e certificare.
Non a caso, Houdini collaborò con l’autorevole rivista “Scientific American”, che aveva offerto un premio a chiunque dimostrasse di possedere capacità soprannaturali, facendo direttamente in modo che nessuno riuscisse a vincerlo. Ma non a caso, lo stesso Houdini promise in punto di morte alla moglie Bess che avrebbe cercato di contattarla secondo una procedura convenuta, a cui Bess ottemperò, ovviamente senza successo, per dieci anni. E sempre non a caso, sulla sua tomba di New York figura il simbolo della Society of American Magicians, che ogni anno celebra l’anniversario della morte di Houdini con una paradossale seduta spiritica.
In definitiva il Grande Houdini si dimostrò veramente grande proprio nella misura in cui rappresentò in maniera eminente le contraddizioni del suo tempo: quelle tra le ragioni del corpo e le ragioni dell’anima, per molti versi coinvolte in una strutturale complicità emotiva e dialettica, e soprattutto quelle tra un mondo troppo sicuro di sé e un mondo troppo poco sicuro di sé.
Una contraddizione, quest’ultima, che rende Houdini assai congeniale anche al nostro tempo, insieme ideologicamente troppo solido e psicologicamente troppo liquido, e che giustifica la frequenza con cui lo stesso Houdini risorge, se non nelle aspettative medianiche dei suoi seguaci, quanto meno in quelle mediatiche dei cercatori di libri.