Creatività tecnologica nella riproduzione degli arti.
di Massimo Negrotti
Periodicamente, dalla fine della Seconda Guerra mondiale, emergono scrittori di varia origine accomunati dalla presunzione di intuire cosa accadrà nel futuro dell’uomo soprattutto in rapporto alla dinamica ambientale, all’andamento demografico, alla produzione agricola e, in misura crescente, allo sviluppo scientifico e tecnologico. Se si eccettuano Herman Kahn, Denis Gabor, Nicholas Negroponte e pochi altri, quasi sempre uomini di formazione tecnologica, di norma sembra che i “futurologi” – basti pensare a Lester Brown, Paul Ehlrich, Alvin Toffler e al Club di Roma – siano inesorabilmente chiamati, dal loro dono della profezia, all’annuncio di catastrofi oppure di crisi epocali quasi sempre dovute all’accelerazione del progresso tecnologico.
A questo riguardo, la posizione di Raymond Kurzweil, noto ricercatore e inventore nel campo dell’intelligenza artificiale, è quanto mai tipica. Già Daniel Bell negli anni Settanta del secolo scorso aveva preconizzato il declino della società industriale a vantaggio della società dell’informazione. Si trattava di una profezia quanto mai infondata e a ogni modo infausta se pensiamo al disincanto che, attualmente, sta seppellendo ogni ingenua credenza nell’inevitabile “superiorità” dell’informazione rispetto alla tecnologia e all’economia reali. A sua volta, Kurzweil è molto prolifico in fatto di previsioni tecnologiche e, in termini generali, sostiene che lo sviluppo già oggi tanto accelerato porterà a una intima simbiosi fra uomo e macchina, fra cervello biologico e cervello elettronico fino alla messa in un angolo di quanti vorranno rimanere fedeli all’ormai superato modello puramente biologico dell’homo sapiens. Tutto questo nel quadro di uno sviluppo vertiginoso della potenza dei calcolatori accompagnata dalla loro dimensione sempre più miniaturizzata.
In tutti i casi, ottimistici o pessimistici, la base delle previsioni è costituita da una nutrita serie di curve statistiche – sempre esponenziali – e dalla speculazione sul loro significato nell’ipotesi che tutto proceda come nei tratti temporali esaminati dalle curve stesse. Questa metodologia e le sue premesse quasi ideologiche, già ampiamente criticate, meriterebbero una discussione a se stante. In questa sede, tuttavia, esamineremo, più sommessamente, ciò che accade davvero in uno dei tanti settori della tecnologie avanzata.
Gli arti artificiali: cenni storici
Il settore degli arti artificiali è senz’altro uno dei casi di studio più interessanti e istruttivi in tema di naturoidi, ossia dei tentativi umani di riprodurre oggetti, sistemi o processi naturali attraverso la tecnologia.
Come si vedrà, l’avanzamento in questo ambito è sì veloce e qualitativamente straordinario, ma la maggior parte degli ostacoli che si incontrano attiene alle nostre conoscenze insufficienti sia dei sistemi biologici naturali che desideriamo riprodurre sia, ed è l’aspetto più rilevante, delle strategie più efficaci ed efficienti per integrare naturale e artificiale, cioè per mettere in condizione il sistema biologico e quello tecnologico di collaborare senza conflitti, possibilmente a vantaggio del primo.
5000 a.C 1500 d.C: Estetici e di semplice supporto
1500 – 1812:Estetici e di posizionamento manuale
1812 – 1960:A gestione meccanica da parte dei muscoli residui
1960 – 1990:Trasduzione dei segnali mioelettrici in forze elettro-meccaniche
1990 – 2008:Elaborazione digitale dei segnali mioelettrici o nervosi
Cinque fasi che distinguono l’avanzamento degli arti artificiali.
Sulla scorta delle notizie che abbiamo, possiamo affermare che la costruzione di arti artificiali (prosthetic limbs) è antica quanto lo è ogni altro sforzo di realizzazione di naturoidi in meccanica e in idraulica, nella cosmesi come nelle arti plastiche.
Reperti di protesi sono stati portati alla luce sin dalla quinta dinastia egizia. Recentemente, è stato trovato ai confini fra Iran e Afghanistan un bulbo oculare artificiale, risalente a 5.000 anni fa, costruito con materiali leggeri derivati dalla colla di bitume, accuratamente rifinito col disegno centrale dell’iride e di efficaci “raggi di luce” color oro.
La mano artificiale del Cavaliere Götz von Berlichingen.
Attorno al 500 a.C Erodoto racconta di un uomo che portava un piede di legno mentre risale al 300 a.C una gamba artificiale, fatta di rame e legno, trovata a Capri. In questi casi, e in tutti quelli simili che sicuramente hanno accompagnato la storia militare nei secoli successivi, si tratta di arti puramente passivi, unicamente destinati a colmare lacune estetiche o, al più, a fare da supporto all’equilibrio e ai movimenti, come nel caso del piede artificiale.
Si deve arrivare al XV secolo per reperire in Germania, con la “mano di Alt-Ruppin”, il primo artefatto che consentiva, sia pure in modo rudimentale, di posizionare meccanicamente le dita in diverse configurazioni. Nel XVI secolo prende forma, con la famosa mano del Cavaliere Götz von Berlichingen, un dispositivo parzialmente attivo nel senso che, oltre a presentare un aspetto simile all’arto originale, esso permetteva, per mezzo di pulsanti e piccole leve, di fare assumere al polso e alle dita le disposizioni desiderate, inclusa la fondamentale opposizione col pollice. In questo stesso periodo nasce la chirurgia delle amputazioni a cura del medico francese Ambroise Pare che si dedicò anche alla progettazione scientifica delle protesi.
Nel 1812 il tecnico chirurgico Peter Baliff intuì per primo la possibilità di conferire all’arto capacità di movimento sfruttando i muscoli residui dell’arto naturale di una persona amputata. Nel 1898 il medico italiano Giuliano Vanghetti introduce su base scientifica la cineprotesi esattamente allo stesso scopo, seguito poco dopo dal medico tedesco Ferdinand Sauerbruch. La nuova tecnica consisteva nel collegamento fisico, chirurgico, dei muscoli residui con i componenti meccanici della protesi. L’efficacia della cosa era però ridotta dall’insorgere di infiammazioni e, nel tempo, dall’allungamento dei muscoli fino a scoordinare del tutto la funzionalità della protesi.
Dalla fine della Seconda Guerra mondiale i progressi nel campo in esame sono stati numerosi e frequenti grazie all’avanzamento generale della scienza e della tecnologia da un lato e dall’interesse delle istituzioni pubbliche e del mercato dall’altro.
Nel 1946 presso l’Università di California, a Berkeley, viene introdotta la tecnica dell’aspirazione per ottimizzare la connessione fra il dispositivo e il corpo del paziente. Nel 1975 il medico Ysidro Martinez si rende conto che, come in altri obiettivi di progettazione di naturoidi, l’ostinazione nel voler riprodurre fedelmente l’esemplare naturale e i suoi principi di funzionamento può portare a inutili ritardi e produrre indesiderabili effetti secondari. Per questo Martinez sceglie una strada alternativa, rinunciando a riprodurre i giunti della gamba umana, ma ottenendo miglioramenti notevoli nella leggerezza e nella capacità di accelerazione e decelerazione.
Di fatto, la connessione della gamba artificiale all’organismo costituisce un problema fondamentale, risolto nel tempo secondo strategie fortemente individualizzate: quelle più adatte a persone giovani che non a persone anziane; quelle valide solo per chi non sia stato sottoposto a by-pass nella parte residua dell’arto e quelle che offrono maggior possibilità di controllare i movimenti o quelle che privilegiano l’equilibrio in funzione delle dimensioni corporee e così via.
A ogni modo, dagli anni 1960 la biomeccatronica – le cui basi erano già state poste negli anni 1940 dalla cibernetica di Norbert Wiener, al MIT – con l’affascinante sfida della connessione dell’arto artificiale al sistema muscolare, e poi nervoso, è decisamente aperta.
Processi naturali e strategie tecnologiche
La nuova strategia punta a sostituire al puro impiego delle forze esercitate direttamente dai muscoli residui il prelievo dalla pelle dei segnali elettrici che accompagnano la contrazione e il rilascio dei muscoli. Questi segnali, una volta amplificati, vengono trasdotti nelle corrispondenti forze esercitate dagli attuatori attraverso motori elettrici o altri componenti. Inutile dire che, nei decenni appena successivi, i segnali verranno sottoposti a una vera e propria elaborazione da parte di microcontrollori sempre più miniaturizzati e in grado, proporzionalmente all’intensità degli input e alle loro combinazioni, di generare movimenti più flessibili e complessi.
L’olimpionica Natalie du Toit.
Come è intuibile, tuttavia, il training che si rende necessario per usare al meglio simili macchine non è breve né agevole. Nonostante la congruità, apparentemente immediata, del modello generale, che consente in via teorica di “pilotare” il dispositivo per mezzo della corrispondenza fra gesti volontari e i corrispondenti movimenti della protesi, ciò che si ottiene, pur essendo incomparabilmente meglio di quanto fosse possibile in passato, non soddisfa pienamente se non una limitata parte dei pazienti. Molti di loro finiscono infatti per abbandonare l’uso anche delle protesi più avanzate per il loro ingombro, peso o aspetto, ma anche per i movimenti troppo simili a quelli di un robot che ne risultano e per il riadattamento mentale che queste macchine richiedono. Qualcosa di simile, come è noto, accade per i dispositivi di sintesi della voce umana: chiara, inequivocabile e dunque efficace ed efficiente, ma intrinsecamente incapace di riprodurre le sottili modulazioni della voce umana cui siamo per nostra natura abituati.
Interessante è, anche qui, la trasfigurazione dell’esemplare naturale che, peraltro, quasi sempre si rende necessaria e utile. A Karlsruhe, i ricercatori hanno messo a punto Fluidhand, un dispositivo che, saltando a piè pari ciò che accade nel corpo umano, per raggiungere un elevato grado di flessibilità con minore peso, si basa su piccoli cuscini collocati sul polso in grado di muovere le dita quando vengono riempiti d’aria.
Mano artificiale progettata alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Uno dei numerosi problemi che rimangono irrisolti è poi quello della sensibilità dell’arto alla pressione, un fatto fondamentale per l’impiego sia di una mano sia di un piede. I biofeedback oggi disponibili, almeno sperimentalmente, consentono una parziale sensazione della pressione esercitata dall’arto, per esempio dalla mano, sull’oggetto con cui avviene l’interazione, per mezzo di bracciali o di elettrodi connessi alla pelle del paziente grazie ai quali egli può rilevare variazioni di temperatura. Altrettanto avviene per la sensazione della pressione esercitata dal piede sul terreno.
Queste soluzioni sono di notevole importanza poiché, fra l’altro, danno luogo alla “proiezione cerebrale” ossia inducono nei pazienti la sensazione di impiegare l’intero arto e non solo la parte naturale loro rimasta. D’altra parte, i ricercatori hanno rilevato, nel 2003, che l’adozione di una protesi influenza negativamente la generazione delle immagini motorie (motor imageries) da parte del paziente. Tali immagini sono generate dalle stesse aree corticali del cervello attive nei movimenti reali degli arti e ne anticipano l’attuazione.
Dito artificiale puramente meccanico dell’americano Dan Didrick.
Il prelievo diretto dei segnali, tramite biosensori, dai muscoli o dai nervi del paziente sta oggi assumendo il ruolo centrale nell’ambito della bioingegneria. Per molti versi, questa area di studi sta insomma ripartendo da zero, ponendosi obiettivi completamente nuovi, per esempio quello di conferire al paziente la possibilità di comandare direttamente gli attuatori attraverso la manifestazione cerebro-mentale delle proprie intenzioni.
Dispositivi di varia natura sono in via di sperimentazione in vari paesi, fra cui Stati Uniti, Svizzera e Austria. Alcuni vedono l’impianto di elettrodi nei muscoli, altri adottano elettrodi allo stato solido attorno ai quali vengono fatti sviluppare i nervi. Altri ancora prelevano i segnali cerebrali da numerosi sensori disposti sulla cute del capo e sfruttano le tecniche già disponibili degli elettroencefalogrammi (EEG) cercando, anche grazie a software di intelligenza artificiale o di reti neurali artificiali, di cogliere le correlazioni fra i flussi di segnali e i comandi che il paziente intende inviare all’arto artificiale.
Il BrainGate della Brown University di Rhode Island, fa uso di un dispositivo, collegato alla corteccia motoria del paziente, costituito da un centinaio di microelettrodi lunghi un millimetro e collegato a un computer che, opportunamente programmato, il paziente può in questo modo controllare. “Luke Arm”, un braccio artificiale fortemente robotizzato, creato dal gruppo di Dean Kamen, progettato per conto del Ministero della Difesa americano, ha come obiettivo la predisposizione di un arto che offra, grazie all’impiego di numerosi chip e motori, un maggior numero di gradi libertà, esattamente 18, rispetto ai 3 di norma disponibili nei dispositivi attuali, partendo dalla constatazione che il braccio naturale ne possiede ben 22.
La mano di Luke, l’arto artificiale di Dean Kamen.
Ancora una volta il progetto ha dovuto affrontare il difficile problema della connessione della macchina con il corpo del paziente. La soluzione è fornita, in questo caso, dalla tecnica chirurgica di Todd Kuiken, del Rehabilitation Institute di Chicago. Nel progetto, i comandi a Luke vengono impartiti per mezzo dell’attivazione intenzionale, da parte del paziente, dei nervi che forniscono la sensazione di muovere il braccio (il phantom limb) mettendo in azione i muscoli pettorali cui i nervi vengono collegati e attivando così, alla fine, gli attuatori di Luke. Il paziente, in tal modo, ha anche la sensazione di usare un proprio arto. Il biofeedback è inoltre fornito da un sotto-sistema – chiamato tactor – che genera vibrazioni sulla pelle, una tecnica in uso anche per indurre effetti di propriocezione in dita artificiali con semplice finalità di riproduzione estetico-plastica. Alternativamente, il paziente può pilotare Luke per mezzo di joystick mossi dal piede.
Il futuro: nuove soluzioni, nuovi problemi
Nel suo insieme, l’attuale offerta di arti artificiali, sia sperimentali sia commerciali, presenta dunque alcune novità di straordinario interesse. Rimangono tuttavia difficoltà che afferiscono alla ineliminabile eterogeneità dei materiali e delle “logiche” operative dei sistemi naturali da un lato e quelli dei naturoidi dall’altro. La connessione con l’organismo biologico, la duttilità dell’attuazione dei movimenti e le strategie per il loro controllo, sono ovviamente i tre ambiti su cui la ricerca si sta impegnando. Le soluzioni che si stanno affacciando assumono gli esemplari naturali – occhio, pelle, braccia, mano, dita, gambe, piede – come obiettivi solo di massima, ma senza alcuna ambizione, né possibilità, di rimanervi fedeli fino al termine della progettazione e della realizzazione. Anche nella nostra epoca, il vero protagonista è pur sempre lo stadio tecnologico generale raggiunto e, dunque, l’insieme delle tecnologie effettivamente disponibili.
Il braccio artificiale completo di Dean Kamen.
Queste, e la loro “natura”, impongono vincoli e chance dalla cui combinazione il naturoide risultante non può che presentarsi e agire secondo modalità sui generis. Le prestazioni finali degli arti artificiali sono talvolta più efficaci di quelle generate dagli arti naturali: per esempio, Oscar Pistorius alle Olimpiadi di Pechino, grazie alle sue gambe artificiali, pare abbia usato solo il 25 per cento dell’energia che impiega un atleta normo-dotato; la forza, la resistenza e la mobilità che una mano artificiale può offrire possono, in linea di principio, andare aldilà delle capacità umane; la pelle artificiale può presentare un gripping power superiore a quello naturale e così via. Per molti altri versi le prestazioni dell’artificiale sono invece più deboli e solo parzialmente sovrapponibili a quelle naturali come, negli arti artificiali, la flessibilità, l’interazione con il resto dell’organismo e vari ordini di sensibilità oltre che, ben s’intende, alla loro configurazione estetica.
Tutto questo significa che, comunque si guardi a questo settore di ricerca, anche in questo ambito si rivela inevitabile l’introduzione nel naturoide di una diversità intrinseca destinata a permanere. Una diversità che, probabilmente, è destinata addirittura ad aumentare, rispetto ai sistemi naturali di riferimento, in ragione diretta dell’aumento qualitativo e quantitativo delle prestazioni per conseguire le quali si rende necessario introdurre tassi crescenti di eterogeneità, ossia di moduli tecnologici, con altrettanto crescenti problemi di bio e psico-compatibilità.
Un ultimo, recentissimo ambito di ricerca che, se sarà seguito da realizzazioni concrete, aprirà la strada verso ulteriori gradi di diversità, è forse il più chiarificatore. Si tratta dei vari tentativi, per esempio condotti da un gruppo della Facoltà di Medicina dell’Università della Florida, di attribuire alla macchina – l’arto artificiale – la capacità non solo di eseguire correttamente i comandi inviati dal cervello umano tramite opportune connessioni, ma anche di apprendere e adattarsi al comportamento del paziente per assisterlo con più efficienza.
In sostanza, si tratta di sostituire agli algoritmi fissi che governano i microcomputer degli attuali arti artificiali con algoritmi in grado di modificarsi e di convergere verso prestazioni ottimizzate assumendo come target i comandi stessi del paziente e le azioni conseguenti. In altre parole, a bordo dell’arto artificiale risiederà un’intelligenza che, invece di esplorare l’ambiente come fa un essere umano quando decide di compiere un movimento, esplorerà i dati provenienti dall’esperienza passata dei comandi ricevuti, giungendo ad anticipare i probabili comandi che l’uomo sta formulando. Le situazioni eccezionali, che rendono tanto imprevedibile la decisione e l’azione umane, potrebbero in questo modo venire compresse e ricondotte “alla norma” da un modello in cui la diversità fra le due intelligenze, una standardizzata e l’altra creativa, non venisse governata da qualche meta-livello master.
L’atleta Oscar Pistorius.
L’idea, in accezione generale, non è nuova ed è già stata avanzata in altri ambiti, come quello dell’intelligenza artificiale, dei word processor attuali – con la loro pretesa, spesso irritante, ma disattivabile, di anticipare le parole che stiamo scrivendo – e persino quello degli strumenti musicali elettronici. In quest’ultimo settore è stato proposto l’auto-adattamento dello strumento alla personalità esecutiva dell’uomo.
Riguardo a questa possibilità, David Wessel, di Berkeley, tempo fa ha scritto che la cosa si presenta quanto mai intriguing poiché l’auto-adattamento dello strumento avverrebbe proprio mentre l’uomo, come accade a ogni esecutore musicale, tenta di adattarsi allo strumento medesimo. In ambito bioingegneristico, chiaramente, la questione è più che mai delicata: un sistema puramente paritetico tende infatti a pervenire a situazioni oscillanti, senza convergenza. Fino a ora, gli arti artificiali – e mille altri naturoidi a tecnologia avanzata – costituiscono sistemi master-slave: l’uomo comanda e il naturoide, in qualche modo, eroga la prestazione richiesta. La presa in carico, da parte della macchina, dell’apprendimento del comportamento umano proprio mentre l’uomo cerca di appropriarsi del funzionamento della macchina, tentando di capirne virtù e difetti, porrà in essere una situazione per ora indecidibile se non finirà per limitarsi al puro conferimento al dispositivo di una maggiore e auspicabile flessibilità.
L’esteriorità dell’arto artificiale risponde a esigenze ovvie ma non legate alla sua funzionalità.
Dalla rassegna che abbiamo proposto, emerge con chiarezza, sia pure in uno solo degli ambiti delle tante tecnologie di frontiera, come sia estremamente arduo prevedere cosa davvero accadrà. Per esempio, le interazioni fra la tecnologia degli arti artificiali e la robotica non sono per il momento chiare anche se appare quasi ovvia la loro collaborazione. D’altra parte, si tratterà probabilmente di progetti che potrebbero restare di dominio proprio ed esclusivo di ognuno dei due campi pur traendo profitto dalle conoscenze tecnologiche acquisite in ambedue. In altre parole, robotica antropomorfa e bioingegneria robotizzata impareranno l’una dall’altra, ma ciò non implica che siano necessariamente destinate a convergere verso la simbiosi uomo-macchina e, meno che meno, a dar luogo a una nuova evoluzione della nostra specie.
Nel campo che abbiamo analizzato, la tendenza attuale, pur fra mille difficoltà, è verso la predisposizione di arti artificiali molto settoriali e addirittura molto individualizzati perché mancano, né si vede in cosa potrebbero consistere, una anatomia, una fisiologia e una neurologia generalizzate di esseri simbiotici verso cui orientare il lavoro di progettazione e di ricerca. D’altra parte, non è questo di cui la medicina ha bisogno.
Il resto del futuribile che viene spesso preconizzato – per esempio cellulari incorporati negli abiti, computer capaci di eseguire ordini vocali e gestuali invece che per mezzo della tastiera, implantazioni di retine artificiali per i non vedenti, la stessa prevalenza della comunicazione fra uomo e macchina rispetto a quella inter-umana – è un insieme di previsioni che in parte ci auguriamo possano essere davvero realistiche e in parte daranno luogo, come già accade, a retroazioni di rigetto a causa del superamento di limiti che la specie umana non può permettersi di oltrepassare. A loro modo, lo avevano già capito nei primi anni 1990 i dirigenti della banca americana Wells Fargo che a Los Angeles, su uno dei suoi buildings, collocava vistosamente lo slogan “In questa banca avrete sempre a che fare con un essere umano”.
Non si tratta di vantare una generica supremazia dell’uomo nei riguardi delle macchine, bensì di non dimenticare che la nostra specie non è disponibile a tutto ciò che è tecnologicamente possibile. Soprattutto quando le trasfigurazioni generate dalla riproduzione delle nostre facoltà fisiche o mentali conducessero a innovazioni non governabili secondo le nostre preferenze. La cultura antropologica, in questo senso, è un formidabile filtro che accetta e respinge secondo criteri che non sono deformabili all’infinito, come sanno bene, per fare un solo esempio, i produttori di videotelefoni, ampiamente rifiutati da un mercato che della possibilità di essere visti e osservati mentre si parla al telefono non sentiva assolutamente alcun bisogno.