Secondo gli ultimi calcoli sull’impatto ambientale delle criptovalute, le attività di mining sono responsabili per circa lo 0.2% dei consumi elettrici globali.
di James Temple
Il processo di Bitcoin mining comporta grandi sprechi. Per acquisire sempre più Bitcoin, i computer dei minatori devono risolvere enigmi sempre più difficili e senza senso. Più potente è il computer e migliori probabilità di guadagno si avranno, al costo di grandi consumi di elettricità ad un alto impatto ambientale.
Secondo i calcoli del più recente studio, pubblicato da Joule, il Bitcoin mining è responsabile dello 0.2% dei consumi globali di elettricità, per una produzione di anidride carbonica pari a quella della città di Kansas City. Le nuove stime sono state affinate utilizzando dati ottenuti dall’IPO delle maggiori società produttrici di hardware per Bitcoin mining. Lo studio è stato realizzato da ricercatori del MIT in collaborazione con colleghi della Technical University of Munich.
La nuova stima è inferiore ad una precedentemente pubblicata dalla stessa rivista l’anno scorso, secondo il cui autore, l’economista Alex de Vries, fondatore di Digiconomist, le operazioni di mining sarebbero arrivate a rappresentare lo 0.5% dei consumi globali di elettricità entro fine 2018, per poi crescere fino al 5%.
Secondo il nuovo studio, il Bitcoin mining sarebbe arrivato a consumare 45.8 terawatt-ora di elettricità nel novembre 2018, per un totale di 22-23 megaton, una quantità intermedia tra quanto emesso dalle nazioni della Giordania e delloSri Lanka. La stima raddoppia quando nel calcolo vengono incluse altre criptovalute.
Nei loro studi dei dati degli IPO relativi alle società di Bitcoin hardware Bitmain, Canaan, ed Ebang, i ricercatori hanno preso in considerazione fattori quali tipologia e successo di mercato dei prodotti utilizzati dai minatori, stime sull’efficienza energetica, parametri quali raffreddamento, trasformatori ed altre componenti del processo. La squadra ha anche studiato gli indirizzi IP dei dispositivi per determinare la posizione geografica delle operazioni di mining, per calcolare il volume dele emissioni in base alle fonti di energia elettrica nelle regioni coinvolte.
Non tutti sono convinti che il nuovo studio rappresenti la summa di ogni possibile analisi del carbon footprint dell’industria delle criptovalute. Jonathan Koomey, studia da tempo gli effetti delle tecnologie dell’informazione su utilizzi energetici ed emissioni. In una mail, il ricercatore spiega le sue riserve sulla recente ricerca.
Prima di tutto, la natura volatile delle criptovalute non permette di considerare l’impatto dell’industria nel novembre 2018 come modello di ciò che avviene oggi. In uno studio pubblicato a inizio anno, Koomey fa inoltre notare che le stime dei produttori sull’efficienza energetica delle loro macchine non sono necessariamente affidabili, in quanto molti fattori complicano il calcolo del loro fabbisogno complessivo di elettricità.
A prescindere dalla precisione dei calcoli sulle emissioni prodotte dall’industria delle criptovalute, rimane il fatto che sono troppo alti. Pur esistendo alternative ai processi di mining attualmente in suo, nessuna di esse è stata ancora finalizzata.
Per quanto 23 megaton di anidride carbonica possano essere considerati una porzione minima dei circa 30.000 megaton di emissioni annue globali relative ai soli consumi energetici, si può ben dire che l’invenzione di un nuovo modo di generare anidride carbonica non sia una priorità rispetto alla necessità di ridurre le emissioni il più velocemente possibile per fare fronte al problema dei cambiamenti climatici.
(lo)